L’animale, oscuro mistero e muto dolore

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L’animale! Oscuro mistero! Mondo immenso di sogni e di muti dolori (…). Ma segni troppo visibili esprimono questi dolori, nonostante la mancanza della parola – Jules Michelet

Se è vero che a volte anche il verificarsi di un evento, straordinario o inatteso, può essere in grado di modificare la prospettiva con cui si guarda a certi aspetti del mondo, allora chiunque ha sempre il suo aneddoto da raccontare. Come per esempio quello di trovarsi per caso a incrociare, nelle contingenze della vita, lo sguardo apparentemente smarrito e terrorizzato di un essere vivente non umano che, stipato insieme a tanti altri sopra il rimorchio di un camion, corre più o meno coscientemente incontro al proprio fatale destino. Non ha importanza di che animale si tratti, così come hanno poca importanza le variegate interpretazioni che ognuno potrebbe restituire da un incontro di questo tipo, sono ben noti infatti gli inevitabili limiti soggettivi delle esperienze e dei pregiudizi. E’ inoltre anche evidente come possa essere particolarmente difficile trattare un tema spinoso e insidioso come questo, visto che molto spesso la corrispondente argomentazione tende a essere stereotipata in visioni perlopiù di stampo ideologico e quindi basate più che altro su un’impostazione derivante dall’adesione, più o meno consapevole, a una qualche forma di “dottrina”. Perciò è meglio chiarire fin da subito: qui non si parla né di animalismo, né tantomeno d’incoraggiamento al veganismo.

Tuttavia, una qualsiasi società che si autodefinisce civile, una qualche domanda se la dovrebbe comunque porre. Chi o cosa sono quegli animali? Sono veramente molto diversi da noi umani o in realtà sono anche molto simili? E se siamo anche noi degli animali, e visto che siamo dotati di una coscienza, perché mai loro non dovrebbero manifestare un qualche cosa di simile, anche se in forma più elementare? Siamo proprio sicuri di non essere in qualche modo condizionati nel nostro pensiero da tutta una serie di potenziali “limiti” derivanti da un’impostazione culturale soggettiva di derivazione umanistica, filosofica o religiosa? E perché mai dovremmo avere il diritto di provocare loro tante sofferenze? Chi o che cosa lo stabilisce? Domande per le quali non sono quasi mai disponibili delle risposte univoche e definitive, anche se una possibile strada da seguire ci è comunque suggerita dal biologo Edward Wilson, padre della sociobiologia, quando nel suo libro “Lettere a un giovane scienziato” scrive:

“C’è un modo soltanto per comprendere, sia pure in modo imperfetto, l’Universo e tutto ciò che esso contiene, ed è attraverso la scienza”.

Può darsi, ma certamente la possibilità che la scienza moderna, intesa prima di tutto come rivoluzione concettuale nell’approccio alla produzione di conoscenza, possa legittimamente proporsi come antidoto all’infinita varietà di credenze che gli uomini hanno sempre tratto dal mito e dalla superstizione, è oramai molto di più di una semplice ipotesi. Inoltre, avvicinarsi con rispetto e fiducia a tutto quello che ha da dire per esempio la biologia, potrebbe essere oltretutto saggio, anche se ciò significherebbe, di fatto, dovere abbandonare quasi del tutto l’idea di un antropocentrismo spinto che molte filosofie, probabilmente fin dalla filosofia stoica dell’antica Grecia, rinvigorite poi dalla religione ebraico-cristiana, hanno invece perpetuato per secoli. Siamo tutti d’accordo che il problema della “coscienza” (concetto non privo di ambiguità esplicativa), ovvero di quella caratteristica, che oltre alla consapevolezza di sé, rende quantomeno capaci anche di un pensiero astratto simbolico e di una attività mentale complessa, rimanga comunque per molti versi ancora insoluto (hard problem).

Tuttavia, le neuroscienze e la psicologia cognitiva sono discipline ormai mature e si avvalgono per i loro studi ed esperimenti di tecnologie molto sofisticate, come per esempio la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la tomografia a emissione di positroni (PET) per esplorare in modo molto raffinato il funzionamento del cervello anche nei minimi dettagli e in modo non invasivo. Probabilmente stiamo soltanto iniziando a capire, ma ci sono moltissimi dati ed evidenze, come per esempio tutte quelle che derivano dalle conseguenze delle compromissioni di certe aree del cervello in seguito a patologie e/o traumi, che ci inducono a ritenere che la mente cosciente umana possa essere una proprietà emergente conseguente alla complessificazione delle strutture neurali, ma comunque derivante dai processi chimici e fisici che avvengono nel cervello. Estendendo quindi il ragionamento, se la coscienza e la mente sono processi o funzioni di ordine superiore, ma che hanno luogo nel cervello materiale, perché allora ciò non potrebbe essere vero almeno in parte anche per un cervello che pur nelle ovvie differenze soprattutto di tipo quantitativo, è anche molto simile al nostro dal punto di vista anatomico e fisiologico (analogie, omologie, lateralizzazione), come quello degli animali filogeneticamente più vicini a noi come i primati e altri mammiferi?

Come facciamo a essere sicuri che molti animali non riescano a provare e a elaborare anche emozioni, sentimenti, paura, per esempio, o quel muto dolore di cui ci parla poeticamente lo storico Michelet? Del resto i cervelli degli animali, per ovvie ragioni, non sono studiati con la stessa minuziosità di quelli umani. Nonostante ciò la ricerca è attiva, e proprio negli ultimi anni, per esempio, si è scoperto che anche le scimmie, come gli umani, possiedono i neuroni specchio, un sistema neuronale fondamentale che sta alla base del riconoscimento delle intenzioni e delle emozioni altrui e rende possibile l’apprendimento imitativo e la comunicazione. Ci sono poi numerosi esperimenti che si possono trovare in letteratura come quelli celebri della psicologa cognitivista Diana Reiss e della ricercatrice Irene Pepperberg, le quali, adottando di fatto una strategia sperimentale che si è sempre concentrata sull’osservazione e sulle possibilità di mostrare negli animali comportamenti complessi, piuttosto che arenarsi in filosofiche definizioni, hanno permesso notevoli avanzamenti della ricerca.

E si è scoperto così che alcuni primati, delfini ed elefanti mostrano consapevolezza di sé nel riconoscersi allo specchio, che le scimmie antropomorfe sanno imparare la lingua dei segni e utilizzarla per comunicare con noi, che molti animali hanno consapevolezza della morte e mostrano evidenti segni di lutto, che il famoso pappagallo Alex oltre che a parlare e a contare, probabilmente pensava a quello che diceva. E cosa dire ancora di fronte a quelle sorprendenti immagini che girano in rete di quei mammiferi selvatici o domestici che si aiutano e si proteggono a vicenda, o di quegli strazianti inseguimenti di mamme-mucca nei confronti di un furgoncino che sta portando via il loro vitellino, o ancora delle disumane atrocità che possono consumarsi in silenzio all’interno di un allevamento intensivo e che potrebbero costituire utile materiale di approfondimento per le scuole.

Chissà poi quante persone hanno avuto la fortuna di conoscere e apprezzare pienamente la stretta convivenza con un cane, un modello sperimentale assolutamente perfetto per capire moltissime cose. Ecco che allora, sulla scia di queste e di molte altre considerazioni che si potrebbero ancora fare, trova una solida giustificazione concettuale anche un importante documento che si chiama “Dichiarazione di Cambridge sulla Coscienza” (Cambridge Declaration Cunsciousness) sottoscritto da un gruppo internazionale di neuroscienziati cognitivi, neurofarmacologi e neurofisiologi, i quali, riuniti all’Università di Cambridge nel luglio del 2012 affermarono che: “…il peso delle prove indica che gli esseri umani non sono gli unici a possedere i substrati neurologici che generano la coscienza.

Anche animali non umani, ivi compresi tutti i mammiferi e gli uccelli e molte altre creature, per esempio i polpi, possiedono tali substrati”. Incredibile, se ciò fosse confermato, potremmo finalmente assistere al crollo definitivo di un pregiudizio, mai dimostrato, che ci condiziona pesantemente da secoli; antropocentrismo spinto e specismo seppelliti in un colpo solo. Persino Papa Francesco, nella sua bellissima e molto scientifica Enciclica “Laudato sì”, lancia a più riprese un messaggio, non soltanto ecumenico, che tende a trasformare il concetto di antropocentrismo in ecocentrismo, prima di tutto, ed esorta tutti a rispettare e a difendere con responsabilità la nostra “Casa Comune” dove tutto è relazione, Uomo, ambiente e tutte le altre creature della Terra. Così scrive, infatti, in un passaggio centrale:

“Anche se è vero che qualche volta i cristiani hanno interpretato le Scritture in modo non corretto, oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature”.

Una prospettiva, quella di Papa Francesco, che potrebbe quindi introdurre nuovi scenari concettuali anche nell’ambito della bioetica e del diritto. Infine, il tema ecologico-nutrizionale, che riguarda principalmente l’industria della carne, perché a quanto pare, almeno nella nostra fortunata fetta di mondo, c’è evidentemente una sovrabbondanza di produzione. Secondo l’Osservatorio Nazionale sui consumi delle carni di Agriumbria, infatti, ogni italiano consuma oggi ben 79 Kg di carne l’anno (nel 1961 il consumo pro capite era di 27 Kg), di cui una sessantina di chili è costituita da carne rossa, meno dei francesi e dei tedeschi che ne consumano 86 Kg, e degli americani che ne consumano addirittura 120 Kg a testa. Ora, ammesso che questi dati siano verosimili, significa che un italiano medio consuma più di un chilo e mezzo di carne a settimana, di cui più di un chilo di carne rossa, quando invece il World Cancer Research Fund, per esempio, riguardo alla carne rossa, raccomanda non più di 300 gr a settimana e l’Harvard School of Medicine restringe la quota addirittura a non più di 160 gr. Stiamo quindi parlando di qualcosa come tre-sei volte il consumo ritenuto ideale, in Italia, peggio ancora nel resto dell’Europa e in America. Un’enormità se si pensa anche che la carne rossa è stata recentemente inserita in classe 2A nella classificazione dello IARC come probabilmente cancerogena e gli insaccati e le carni lavorate addirittura in classe 1 delle sostanze ritenute effettivamente cancerogene. Inoltre, oramai moltissimi studi mostrano come la dieta più corretta ai fini della prevenzione della sindrome metabolica e del rischio cardiovascolare e oncologico, risulti essere una dieta frugale, prevalentemente di tipo vegetariano-frugivoro e con il pesce da preferire alla carne. E’ pertanto evidente come l’attuale dimensione dell’industria della carne, che peraltro produce dei danni ambientali enormi (degrado del suolo, disboscamento, inquinamento, gas serra) e un notevole consumo di risorse idriche e alimentari che potrebbero essere impiegate altrimenti, continui a essere sorretta più dal business e dalle astratte logiche di mercato, piuttosto che da una reale esigenza nutrizionale.

Ecco che allora, una volta demoliti anche gli ultimi e insostenibili alibi, la prospettiva di una sensibile riduzione del consumo di carne potrebbe produrre, oltre che immediati benefici per la nostra salute e per quella dell’ambiente, anche la possibilità concreta di colpire, se non del tutto eliminare gli allevamenti intensivi, favorendo strutture più attente alla cura e al benessere di questi poveri animali e rendendo più facili ed efficaci anche gli interventi nei confronti dei crudeli e inaccettabili metodi ancora troppo spesso utilizzati per la crescita e la macellazione.

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Nato nel 1969, laureato in Scienze Biologiche all'Università degli Studi di Padova. Vive a Pordenone e lavora come informatore scientifico nel settore della microbiologia. Autore di numerosi articoli su tematiche inerenti al clima pubblicati sul sito "meteolive".

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