I misuratori dell’universo

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 Un migliaio di galassie registrate dall’HST 

 

 

 

I misuratori dell’Universo

di Giorgio Masiero

Si fa presto a dire scienza…, ma una narrazione “verosimile” di come potrebbero essere andate le cose, non è la stessa cosa d’una spiegazione “veridica” di come sono effettivamente andate. Nessun tribunale giudicherebbe qualcuno solo sulla base di una ricostruzione verosimile dei fatti. Per il verdetto, la giuria ha bisogno di prove. Allo stesso modo, in scienza sperimentale le congetture devono essere controllabili da “test”, e superano l’esame solo quando producono ex ante predizioni corroborate ex post dall’esperienza.

In questo articolo mi propongo di mostrare il metodo scientifico concretamente all’opera, in tutte le sue 5 articolazioni:

  1. raccolta di sempre nuove osservazioni numeriche (“dati”),
  2. esame dei dati in vista di nuove assunzioni esplicative (“congetture”),
  3. intuizione di congetture in vista di nuovi sistemi formali descrittivi (“modelli”),
  4. elaborazione di modelli in vista di nuove previsioni osservative (“predizioni”),
  5. e, a chiusura del circolo virtuoso e cumulativo, controllo sperimentale delle nuove predizioni (“test”).

Quali rotelline d’un orologio, tutte e 5 queste attività (e condizioni) sono necessarie a comporre una teoria scientifica. Formulare concetti non quantificabili o congetture incontrollabili appartiene invece – direbbero i Greci – alla “dòxa”, cioè ad un opinare soggettivo; non all’“epistème”, che è il conoscere oggettivo. È in conseguenza della sua dialettica incessante tra predizione e falsificazione che la scienza progredisce (di fatto, non può arretrare) in conoscenza ed applicazioni tecnologiche (“techné”), governando alcuni fenomeni della Natura o simulandoli con macchine. Ed anche, di sghimbescio, creando le illusioni ideologiche d’un progresso esteso a tutta l’antropologia: nei campi sociale, politico, ecc., ciò che, evidentemente, è un’estrapolazione nulla avente a che fare col metodo scientifico. Alla libera letteratura (“poíesis”) spetta invece la funzione d’intrattenimento.

Prenderò a tema il premio Nobel per la fisica del 2011, assegnato a Saul Perlmutter, Adam Riess e Brian Schmidtper la scoperta dell’espansione accelerata dell’Universo a partire dall’osservazione di supernovae lontane” – si legge nella motivazione ufficiale dell’accademia svedese –. Il lettore che avrà la pazienza di seguirmi fino in fondo sarà ripagato, spero, dai seguenti benefici:

  • si affaccerà ad uno dei problemi aperti più importanti della fisica;
  • si farà un’idea della struttura dell’Universo, della sua grandezza e del suo destino;
  • apprenderà con quali accorgimenti, nel corso dei secoli, gli uomini siano riusciti ad affrontare una delle sfide più difficili delle scienze naturali: la misura della distanza delle stelle[i];
  • da ultimo, rivivrà quasi come se vi avesse partecipato l’avventura di 2 team di scienziati e studenti che, lavorando sodo per anni, hanno ottenuto un risultato prima apparentemente impossibile e dopo apparentemente assurdo.

Ho scelto il lavoro di questi ricercatori a modello del modus operandi della ricerca scientifica anche perché vi si sfata l’idea che la scienza sia un procedimento di avvicinamento lineare progressivo alla Verità assoluta (come invece accade in matematica, quando per es. si estrae la √2 e, calcolando sempre nuove cifre decimali, si riduce indefinitamente l’errore sotto ogni limite desiderato…): no, la scienza “progredisce per crisi” (Steven Weinberg [ii]), ovvero avanza per salti attraverso cambi di paradigma, allorché nuove teorie del tutto difformi dal mainstream culturale del tempo falsificano le precedenti, inglobandone anche le vecchie predizioni. “La scienza non è questione di provare qualche verità, ma piuttosto di provare ad immaginarsi dove sbagliamo e dove stanno gli errori”, ebbe a dire proprio Perlmutter ad un giornalista che lo intervistò dopo il Nobel.

Come si misurano le distanze delle stelle più vicine

 Fig. 1 – Rappresentazione della Via Lattea

La nostra prima meta fuori porta è la Via Lattea, che è un sistema di alcune centinaia di miliardi di stelle legate insieme dalla forza di gravità. La sua forma è composta di un nucleo da cui si dipartono diversi bracci a spirale, con un diametro di 100.000 anni luce ed uno spessore ai bracci di 1.000. Casa nostra, il sistema solare, si trova a circa metà strada tra il centro e la periferia, nel braccio detto di Orione.

Come si può misurare la distanza di una stella? Per quelle più vicine, il metodo classico è il parallasse: si ripete a distanza di 6 mesi la misura della direzione del cannocchiale verso la stella e dalla semidifferenza delle 2 direzioni si ricava l’angolo p (v. Fig. 2). La geometria, semplificata dall’enorme lontananza di tutte le stelle rispetto alla distanza Terra-Sole (a = 149,6 milioni km = 8,33 minuti luce), ci dice allora che la distanza r della stella in parsec (1 parsec = 3,26 anni luce) è data dall’inverso di p, quando p è misurato in secondi d’arco (1” = 1/3.600 grado):

r = 1/p.

 Fig. 2 – Misura della distanza della Stella col parallasse

La stella più vicina, Proxima Centauri, forma un angolo p = 0,77”, cosicché la sua distanza è 1 : 0,77 = 1,30 parsec = 4,24 anni luce. Per tutte le altre stelle, l’angolo si riduce all’aumentare della distanza e, non potendosi misurare con affidabilità angoli sotto il centesimo di secondo, il metodo del parallasse diventa sempre più incerto, fino a fallire per distanze oltre qualche centinaio di anni luce.

E per le stelle più lontane, che poi vuol dire quasi tutte quelle della nostra galassia e tutte quelle delle altre galassie?

Le Cefeidi

In condizioni di perfetta trasparenza, la luminosità apparente d’un oggetto varia inversamente al quadrato della sua distanza dall’osservatore. Ciò accade perché la luce diffusa dalla sorgente si distribuisce su una sfera la cui superficie è, come si sa, proporzionale al quadrato del raggio. Così, un lampione osservato in una notte tersa a 50 metri di distanza apparirà 4 volte più brillante d’un lampione a 100 metri e 9 volte più brillante di uno collocato a 150 metri. Se poi c’è nebbia ad assorbire una frazione della luce, la luminosità diminuirà con la distanza ancora più rapidamente, ma comunque con equazioni di cui la fisica sa pragmaticamente dotarsi. Se potessimo conoscere l’intensità luminosa assoluta di una stella, dalla misura con un fotometro della sua luminosità osservata dalla Terra potremmo allora risalire alla sua distanza.

Per le stelle però non è come per le lampadine, la cui luminosità assoluta è certificata dal costruttore: la luminosità (o “magnitudine”) delle stelle non è nota a priori perché dipende da fattori generalmente ignoti quali dimensione, temperatura…, eccetto che per una classe di stelle pulsanti (di 2 tipi), le Cefeidi, nelle quali gli astronomi hanno osservato una strettissima relazione (si osservi in Fig. 3 come i dati risultino allineati su 2 rette precise, secondo il tipo di Cefeide) tra luminosità assoluta e periodo di variabilità.

 Fig. 3 – Correlazione Periodo-Luminosità nelle Cefeidi

Una Cefeide è solitamente una stella gigante gialla che pulsa con regolarità, espandendosi e contraendosi, e mutando durante il ciclo la sua luminosità. Il periodo di oscillazione delle Cefeidi va da 1 giorno ad alcune centinaia di giorni, la loro luminosità va da 1.000 volte a 10.000 volte quella del Sole e le due variabili sono correlate: così una Cefeide con un periodo di 3 giorni ha una luminosità 800 volte quella del Sole, mentre una Cefeide con un periodo di 30 giorni è 10.000 volte più luminosa del Sole. Naturalmente la curva che restituisce la luminosità in funzione del periodo è stata scoperta e calibrata usando inizialmente le stelle Cefeidi più vicine, per le quali la distanza era già conosciuta con il parallasse.

Grazie a questa correlazione, alla precisione con cui si può misurare il periodo di pulsazione e anche alla loro grande luminosità, le Cefeidi sono utili a determinare la distanza delle galassie in cui sono contenute, nei dintorni della Via Lattea. Questo metodo è stato usato la prima volta per calcolare la distanza della Piccola Nube di Magellano (230.000 anni luce). Esso è affetto da errori a causa della presenza di polveri interstellari e anche della nostra ignoranza sulla posizione precisa della Cefeide all’interno di una galassia, ma questi errori sono relativamente piccoli. In ogni caso, funziona fino a distanze di qualche decina di milioni di anni luce dalla Terra, perché per distanze maggiori le Cefeidi diventano troppo tenui per essere osservate.

La misura dell’Universo e la nascita della cosmologia scientifica

La cosmologia scientifica “osservativa” ebbe inizio nel 1916 quando Vesto Slipher esaminò circa 50 galassie dei dintorni, usò un prisma per diffrangerne i colori e registrò i risultati in una pellicola. I risultati confusero lui e gli astronomi con cui era in contatto: tutti gli oggetti osservati avevano i colori che si spostavano verso la gamma dei rossi (“red-shift”). Se gli atomi sono in tutto l’Universo gli stessi, come nessuno si sogna di dubitare, era in azione l’effetto Doppler[iii]: lo spostamento verso il rosso dimostrava che tutti gli oggetti nell’Universo si stavano allontanando da noi. La Fig. 4 rappresenta nella metà superiore lo spettro dei colori (e le righe degli atomi) del nostro Sole, che è ciò che Slipher si aspettava anche per le sue galassie, e nella metà inferiore come effettivamente queste glielo restituirono.

 Fig. 4 – Il red-shift osservato da Slipher

A Slipher la cosa parve un rompicapo perché dai tempi di Copernico l’astronomia postula che la Terra non occupi un posto speciale nell’Universo e invece quelle misure sembravano contraddire l’assunto: come se la Terra occupasse un “centro”, da cui tutti gli altri corpi celesti hanno fretta d’allontanarsi!

I risultati di Slipher rimasero un mistero finché Edwin Hubble negli anni ’20, armato di un nuovo potente telescopio da un lato e di un’intuizione geniale dall’altro (ovvero, che le stelle più luminose di ogni galassia hanno tutte la stessa luminosità assoluta – una conseguenza del postulato cosmologico moderno d’inesistenza di posizioni privilegiate nell’Universo –), dimostrò un fatto stupefacente, rivoluzionario per la scienza di tutti i tempi: l’Universo si espande!

Nel 1929 Hubble annunciò i suoi risultati. Egli trovò che ad allontanarsi più velocemente sono gli oggetti più sbiaditi, ossia secondo la sua intuizione le galassie più lontane, con una proporzionalità lineare tra velocità e distanza (“legge di Hubble”). Da qui inferì che l’Universo si sta espandendo. Naturalmente, se ci riflettiamo, che l’Universo si espanda con velocità proporzionale alla distanza non implica che la Terra occupi una posizione speciale: come ingrandendo una foto o gonfiando un palloncino ogni punto si allontana da ogni altro con una metrica che non implica l’esistenza di un “centro” sulla superficie, così esattamente accade per l’espansione dell’Universo[iv].

Oggi con la “costante di Hubble” si denota la velocità con cui si allontanano reciprocamente 2 oggetti posti alla distanza di 1 megaparsec (= 1 milione di parsec = 3,26 milioni di anni luce). Il valore attualmente più accreditato per la costante di Hubble è di 70 km/s. Più distante è un oggetto da noi, maggiore è la velocità con cui si allontana e, per l’effetto Doppler, maggiore è lo spostamento verso il rosso (la cui misura relativa gli astronomi denotano con z) del suo spettro osservato da qui. Tra gli oggetti astronomici il red-shift attualmente più grande è quello misurato nella galassia IOK-1, individuata nel settembre 2006, con z = 6,96 (a 12,9 miliardi di anni luce di distanza).

Se estrapoliamo all’indietro nel tempo, per sapere quando erano sovrapposti 2 qualsiasi corpi celesti oggi separati, ecco trovato il… Big Bang! L’inverso della costante di Hubble ci dice perciò quanto è vecchio l’Universo, nell’assunzione che esso abbia avuto sempre la stessa velocità di espansione. Al valore di 70 km/s per megaparsec, l’età che salta fuori è di 14 miliardi di anni circa. Se poi vogliamo calcolare la distanza alla quale un oggetto si sta allontanando con la velocità della luce (una distanza, quindi, oltre la quale finisce l’Universo visibile dalla Terra ma non l’Universo intero, se l’operativismo mi perdona la divagazione! –) dobbiamo ancora prendere l’inverso della costante di Hubble e il numero è lo stesso: il raggio dell’Universo osservabile è di 14 miliardi di anni luce[v].

In campo astronomico, i contatti tra teoria ed osservazione ai tempi di Slipher dovevano essere molto poveri. C’è una coincidenza che va sottolineata: nello stesso anno delle osservazioni di Slipher in America, nel Vecchio continente Albert Einstein inventava la cosmologia scientifica “teorica” pubblicando la versione finale della sua teoria della Relatività Generale (RG). Già l’anno dopo, avendo scoperto che essa implicava l’espansione dell’Universo, Einstein provò a correggerne le equazioni introducendo una pressione negativa Λ[vi] (o, diremmo oggi, una “materia “oscura”), così da avere un universo statico, più coerente con la sua personale concezione metafisica. Ma ciò che ottenne fu solo un modello in bilico tra esplosione e collasso. Evidentemente Einstein e Slipher non sapevano l’uno dell’altro e persero insieme l’occasione d’annunciare nel 1916 la scoperta dell’espansione dell’Universo, per via teorica e osservativa contemporaneamente: coincidenza tra predizione matematica ed osservazione sperimentale di un fenomeno inimmaginabile, il top per una teoria scientifica. Ed Einstein si sarebbe anche risparmiato d’incorrere nel “più grande abbaglio” della sua vita con quella Λ, come ebbe successivamente a dichiarare.

Negli anni ’20 accadde invece che, prendendo sul serio le originali equazioni einsteiniane, un matematico sovietico, Alexander Friedman, ed un prete belga fresco d’un PhD al MIT, Georges Lemaître, calcolarono indipendentemente la velocità di espansione dell’Universo.  Nel 1927 Lemaître predisse anche la legge di Hubble e nel 1930 notò che l’età dell’Universo era approssimativamente uguale all’inverso della costante di Hubble, suggerendo che i dati di Slipher e di Hubble supportavano le sue conclusioni.

L’importanza paradigmatica delle soluzioni di Friedman-Lemaître sta nella storicizzazione dell’Universo. Fino ad allora l’idea dell’espansione dell’Universo era assolutamente fuori da ogni concezione. Per tutta la storia dell’umanità l’Universo era stato considerato fisso, perfetto ed immutabile e l’idea che esso potesse evolvere era considerata assurda. Prendiamo per tutti Platone: “Il mondo è stato realizzato sulla base di un modello che può essere appreso con la ragione e l’intelletto ed è sempre allo stesso stato […] Il cielo è uno solo, essendo stato fabbricato secondo il modello ideale [...] E perché questo mondo fosse simile, nella sua unicità, all’essere vivente perfetto, per questa ragione, l’Artefice non fece né due né infiniti mondi, ma quest’unico cielo, unigenito e generato, che è e ancora sarà […] Il tempo è nato insieme al cielo, in modo che, generati insieme, insieme anche si dissolvano, se mai avverrà una loro dissoluzione, e fu fatto sulla base del modello dell’eterna natura, perché, per quanto è possibile, le somigli: il modello esiste per tutta l’eternità, mentre il cielo sino alla fine per tutto il tempo è esistito, esiste, ed esisterà […] Perché il tempo fosse generato, furono generati il Sole, la Luna, e altri 5 astri che si chiamano pianeti, per distinguere e custodire i numeri del tempo…” (dal “Timeo”, 360 a.C.). Con poche varianti introdotte nell’età moderna, questa era la concezione sacra del Cosmo fino ad Hubble.

 Fig. 5 – Il diagramma (originale) di Hubble

Ma nel 1929, con un chiaro diagramma (Fig. 5) della velocità di recessione delle galassie contro la loro distanza, Hubble mostrava che tutti si erano fino ad allora sbagliati: l’Universo non poteva più essere trattato come un’entità statica, ordinatrice del tempo per gli umani, ma piuttosto come una creatura mutevole con una propria storia, e il tempo diventava una variabile indipendente per investigare la natura dell’Universo nel suo complesso. Era nata la cosmologia scientifica moderna. Si trattò d’un vero e proprio punto di svolta nella storia della conoscenza: “Di tutte le grandi predizioni fatte nei secoli dalla scienza,” ha celebrato con enfasi il fisico John A. Wheeler, “ce n’è mai stata una maggiore di questa che prediceva, e prediceva correttamente, e lo faceva contro ogni immaginazione, un fenomeno così fantastico come l’espansione dell’Universo?”.

Il fato dell’Universo

L’Universo si espanderà indefinitamente? E se sì, da quali condizioni iniziali è sorto? Oppure rallenterà fino ad arrestarsi ad un certo istante futuro e a ricollassare sotto il richiamo della gravità? Oppure…?

Man mano che l’Universo si espande la gravità lo richiama e, se questa fosse l’unica forza agente, dovrebbe nel tempo rallentare la propria espansione. Così almeno si pensava prima delle scoperte dei Nostri Nobel, e l’unica questione aperta alle soglie del Terzo millennio era se il rallentamento si sarebbe ad un certo punto azzerato e rovesciato nel moto opposto, o sarebbe proseguito asintoticamente… Ricordiamo anche che, quando guardiamo con i telescopi a grandi distanze, stiamo in realtà guardando indietro nel tempo. Se allora, guardando lontano, potessimo misurare quanto velocemente l’Universo si è espanso nel passato e paragonare a quanto velocemente si sta espandendo ora (a piccole distanze), potremmo valutare l’effetto gravitazionale totale della materia nell’Universo. Se ce n’è molta, l’Universo si è espanso più velocemente nel passato e adesso dovrebbe rallentare; e nel futuro potrebbe arrestare la sua espansione, cominciare a contrarsi e finire in un Big Crunch.

Alcuni modelli di universo sono di questo tipo, curvano su se stessi come una sfera e sono spazialmente e temporalmente limitati tra il Big Bang ed il Big Crunch (v. Fig. 6, linea gialla). Se invece non c’è molto materiale, l’Universo si è espanso nel passato press’a poco alla stessa velocità di adesso e continuerà ad espandersi indefinitamente in futuro: questo modello s’incurva allontanandosi da sé come la superficie di una sella ed è senza una fine nel tempo futuro (Fig. 6, linea viola).

 Fig. 6 – I 3 scenari dell’Universo

A priori però esiste anche una terza possibilità (Fig. 6, linea blu), che all’epoca veniva presa solo per esercizio matematico: che l’Universo contenga da qualche parte del materiale diverso dalla materia-energia che conosciamo, un’“energia oscura” che acceleri sempre più l’espansione. La costante di Hubble non sarebbe allora una vera costante, ma aumenterebbe col tempo. I cosmologi, per rappresentare il fattore X dell’Universo avente tale dinamica repulsiva, reintroducono allora nelle equazioni della RG la vecchia costante Λ di Einstein col segno opposto, con l’obiettivo stavolta non di bloccare l’espansione, bensì di accelerarla. Con un’equivalente interpretazione, Λ può rappresentare una proprietà ignota dello spazio-tempo (secondo la visione geometrica di Einstein), o forse l’energia del vuoto (secondo la Teoria Quantistica dei Campi, TQC).

Oltre alle equazioni della RG, i cosmologi usano in tutti i modelli alcune congetture che, per quanto finora risulta all’osservazione, appaiono corrette. Le 2 più importanti sono che l’Universo è

1)      omogeneo, cioè il materiale presente nell’Universo è, in media, distribuito uniformemente e

2)      isotropo, cioè la materia-energia, l’espansione ed ogni altro fenomeno sono gli stessi in ogni direzione in cui guardiamo.

Si capisce insomma che è il materiale complessivo di cui è fatto (o una metrica non prevista da Einstein dello spazio-tempo o l’energia quantistica del vuoto) a condizionare passato e futuro dell’Universo e a dargli forma.

Con il parallasse abbiamo messo il naso fuori dal sistema solare, con le Cefeidi l’abbiamo messo fuori dalla Via Lattea, a frugare nelle galassie qui intorno. Se ora potessimo spiccare un salto in avanti e misurare le lunghe distanze, gli sperimentali potrebbero confrontare le loro osservazioni con le predizioni dei teorici e potremmo capire il fato dell’Universo, per cercare di rispondere alle domande pregne di senso con cui ho aperto il paragrafo. Ma per far questo, abbiamo bisogno di trovare il modo di misurare le distanze fino al confine: dalla posizione di metà strada dove ci troviamo dell’Universo visibile dobbiamo arrivare ai bordi, a miliardi di anni luce da qui. Questo è un problema niente affatto banale, perché anche le galassie abbastanza brillanti da poter essere osservate a distanze ad “alto red-shift z” evolvono nel tempo, cosicché paragonare la grandezza o la brillantezza di galassie prossime e di galassie remote è un compito costellato di tranelli. E così veniamo al lavoro immane dei Nostri Nobel.

Le supernovae di tipo Ia

C’è una classe particolare di stelle (singole) ultra brillanti che possono essere osservate a grandi distanze, e proprio queste sono state usate dai nostri eroi per misurare l’Universo profondo: le supernovae di tipo Ia. Esse sono, dopo il parallasse e le Cefeidi, un altro indizio che il Creatore Si è divertito a seminare nella caccia al tesoro che l’uomo da sempre gioca nella sua ricerca per la misura dell’Universo.

Le supernovae di tipo Ia sono probabilmente esplosioni di nane bianche che si trovano in vicinanza di un’altra stella con cui fanno un sistema binario, un pinnacolo che solo poche stelle sono capaci di raggiungere. Subrahmanyan Chandrasekhar prese il premio Nobel della fisica nel 1983 per aver dimostrato che le nane bianche, se acquisiscono una massa maggiore di 1,4 volte il Sole, possono esplodere. Questo perché, a tale soglia, le forze di repulsione tra gli elettroni che altrimenti impedirebbero alla nana d’implodere perdono la loro battaglia contro la forza attrattiva gravitazionale e… la nana inizia il suo collasso. La nana bianca è composta di carbonio e ossigeno ed ha perciò ancora una quantità notevole di energia nucleare nei suoi serbatoi atomici: quando – arrivata alla soglia di 1,4 per effetto dell’assorbimento di materia proveniente dalla stella accoppiata – comincia a collassare, piuttosto che un processo graduale di reazioni nucleari, vi avviene uno scoppio unico che consuma la stella in 1 secondo, creando una deflagrazione termonucleare 5 miliardi di volte più luminosa del nostro Sole.

 Fig. 7 – La supernova SN1994D (in basso, a sin.) [vii]

Queste supernovae non hanno tutte esattamente la stessa luminosità, possono variare di un fattore 2, ma si è osservato che le meno brillanti crescono e si spengono più velocemente, mentre le più brillanti lo fanno più lentamente. Guardando in che misura si affievoliscono nei 15 giorni successivi alla luce massima, si è trovato che possono fornire distanze affidabili, uguali entro un 7% ai migliori indicatori di distanze astronomiche. In aggiunta, poiché sono così brillanti, possono essere viste a grandi distanze, e queste due caratteristiche le rendono utili a misurare l’Universo profondo.

Sfortunatamente queste supernovae sono molto rare. L’ultima vista nella nostra Galassia risale al 30 aprile 1006 e deve avere avuto una magnitudine assoluta immensa, se risultò facilmente visibile alla luce del giorno. Essa apparve improvvisamente in cielo nella costellazione del Lupo – raccontano concordi fonti d’Italia, Svizzera, Egitto, Iraq, Cina e Giappone dell’epoca –. La stella fu visibile per parecchi mesi anche in pieno giorno, aveva una grandezza quasi tripla del disco di Venere e raggiunse un quarto della luminosità della Luna.

Ma come e dove i nostri cercatori hanno trovato queste mosche bianche?

La Scoperta

Anche nella ricerca scientifica, come nell’industria, una sana competizione può risultare utile a raggiungere i migliori risultati. Per trovare le rarissime supernovae di tipo Ia servono

a)      grandi spicchi di cielo da osservare con i telescopi,

b)      potenti telescopi per raccogliere i dati tenui provenienti dagli oggetti remoti e

c)       una comunità inter-specialistica di appassionati dediti alla stessa causa: registrare, esaminare, elaborare ed interpretare i dati alla luce delle teorie più consolidate della fisica e anche, se necessario, di nuove create ad hoc, sacrificando all’impresa ogni altro interesse per anni.

 Fig. 8 – Un fotogramma dell’High-z SN (con 50.000 galassie)

Il fatto che negli anni ‘90 si fossero costituiti per lo stesso obiettivo 2 gruppi indipendenti di ricercatori (il Supernova Cosmology Project, composto di una trentina di persone e capeggiato da Saul Perlmutter, e l’High-z SN con una ventina di persone capeggiate da Brian Schmidt) produsse, sotto la spinta dell’emulazione, una tale mole di lavoro che si rivelò sufficiente, in alcuni anni, a trovare gli aghi sepolti nel pagliaio.

Con un telescopio da 3.5 metri, Schmidt e i suoi furono in grado di scannerizzare ogni 5 minuti un tassello di cielo, avente la base della grandezza della Luna ed una tale profondità, ossia la capacità di osservare fino ad un tale livello di tenuità, da trovare supernovae di tipo Ia a metà strada dell’Universo osservabile. Questo lavoro ripeterono per centinaia di notti. Anche se queste supernovae sono rare, ogni immagine (v. Fig. 8) conteneva circa 50.000 galassie, cosicché furono in grado di tenere sotto osservazione più di 1 milione di galassie a notte, trovando decine di supernovae. Contemporaneamente, Perlmutter – grazie ad un sistema robotizzato da lui appositamente ideato per scattare foto di milioni di galassie, dalle quali selezionare automaticamente con la nuova tecnologia CCD di digital imaging i punti luminosi temporanei – poté giovarsi della collaborazione di osservatori astronomici distribuiti nei due emisferi (e anche dell’HST) e così registrare centinaia di supernovae.

E ciò i due team fecero in anni in cui i computer erano centinaia di volte più lenti di oggi e la banda di comunicazione tra i ricercatori sparsi in tutto il mondo si misurava in bit/sec. Vi rimediarono lavorando fino a 20 ore al giorno per settimane di seguito.

Ma lo sforzo pagò. Nei primi mesi del 1997 Schmidt e i suoi avevano raccolto 14 oggetti (v. uno di questi in Fig. 9) che, per la coerenza e l’affidabilità dei dati raccolti, potevano essere utilizzati. I primi 5 oggetti mostravano che l’Universo non stava rallentando, non stava finendo in un Big Crunch. Tuttavia il loro risultato era in contrasto con un primo articolo pubblicato dal team di Perlmutter, dai cui dati pareva emergere invece un rallentamento sensibile dell’espansione dell’Universo. Entrambi i gruppi comunque avevano ancora pochi oggetti utili e le incertezze erano grandi.

 Fig. 9 – 28 aprile ‘96: una supernova di tipo Ia appare all’High-z SN

A fine ’97, un esame di Adam Riess su altri 10 oggetti dell’High-z SN portò Schmidt alla conclusione che le supernovae erano tutte più sbiadite di quanto qualsiasi modello di universo composto delle metriche e della materia-energia conosciute potesse contenere, quasi che l’Universo stesse ora accelerando la sua espansione. Per Schmidt divenne d’obbligo aumentare la riservatezza e ricontrollare i dati, perché – avrebbe dichiarato un giorno – “una cosa è avere risultati diversi da quelli del gruppo concorrente, altro è avere un risultato folle!”.

Passati gli ultimi mesi del ’97 a riesaminare tutte le osservazioni per trovare l’errore, a fine anno gli risultò chiaro che quelli erano i risultati delle osservazioni. Nello stesso periodo il gruppo di Perlmutter era arrivato per proprio conto alla stessa conclusione, opposta alla precedente.

A gennaio 1998 Schmidt informò tutti i membri del suo team che i dati davano il risultato sconvolgente di un Universo in espansione accelerata. Nello stesso mese Perlmutter ufficializzò i suoi 42 oggetti, aggiungendo che essi erano meno brillanti di quanto ci si poteva aspettare: tuttavia, egli non aveva ancora risolto il problema di come pesare l’effetto della polvere interstellare e quindi non si sbilanciò a dire che l’Universo accelerava. Per il gruppo di Schmidt invece, la polvere era un problema risolto: esso era stato il tema della tesi di dottorato di Riess, che aveva osservato ogni supernova sotto almeno 2 lunghezze d’onda e confrontato genialmente i dati per rimuovere gli effetti della polvere per ogni distanza. Così Schmidt & Co se ne stettero zitti, nonostante la tentazione di urlare ai quattro venti la loro scoperta, e lavorarono a preparare un report che infine fu presentato a fine febbraio ad una conferenza in California: anche tenuto conto degli effetti della polvere, l’Universo è in espansione accelerata.

13 anni dopo i leader dei 2 team e l’esperto della polvere sarebbero stati gratificati del premio Nobel.

Conclusioni

Dalla conferenza californiana, centinaia di ricercatori hanno tentato di trovare una spiegazione all’accelerazione dell’Universo… o di falsificarla[viii]. Molte nuove teorie sono state proposte per spiegare l’accelerazione ed innumerevoli articoli hanno suggerito modi in cui le supernovae avrebbero potuto ingannare i Nostri, ma niente finora ha fatto sparire l’accelerazione. Ed anzi, altri metodi[ix] hanno dato risultati simili.

A dispetto di 15 anni ulteriori di ricerca astronomica e cosmologica, non conosciamo il meccanismo che accelera l’Universo. Esperimenti più recenti di diversi gruppi stanno trovando risposte consistenti con la presenza di energia oscura legata allo spazio stesso. Ma la denominazione da sola è un flatus vocis che vela la nostra persistente ignoranza. Lo spazio-tempo conterrebbe associata a sé un’energia strana, con la proprietà che quando lo spazio raddoppia in volume la densità di quella rimane costante, mentre la densità dell’ordinaria materia-energia gravitazionale si dimezza, ovviamente. Questa nuova forma di energia può essere rappresentata cambiando segno alla costante cosmologica Λ originalmente proposta da Einstein per impedire all’Universo di espandersi; ma altri tipi di energia oscura, che evolvono dinamicamente all’espandersi dell’Universo, sono possibili nella TQC e rappresentabili da Λ. Questa Λ tuttavia resta uno dei maggiori enigmi della fisica contemporanea.

Non conosciamo il valore di Λ, ma sappiamo che è compreso tra 0 e 10-53. Hai letto bene, lettore: Λ non è negativa, né è esattamente nulla; è positiva e minore di 0,000…[52 zeri decimali]1.

Non può essere negativa, perché invece che ad un’espansione l’Universo sarebbe allora soggetto ad un catastrofico collasso. Né può essere nulla, perché tutti i modelli cosmologici darebbero il risultato falso d’un Universo più giovane delle più vecchie stelle osservate! Né infine può essere, anche solo di qualche ordine, maggiore di 10-53, perché l’espansione sarebbe così esplosiva da impedire la formazione delle galassie… e senza galassie non ci sarebbero le interazioni necessarie per la complessificazione, intervenuta in particolare 3,5 miliardi di anni fa con la biosfera terrestre e culminata nella specie umana. (Ugualmente, il collasso catastrofico dell’Universo con una Λ negativa impedirebbe lo sviluppo di ogni forma di vita.) Λ insomma è finemente sintonizzata alle condizioni antropiche. Come spiegare il fine tuning di Λ?

Potrebbe Λ dipendere da altre costanti fisiche? Nulla come l’Universo può considerarsi per definizione un sistema perfettamente isolato: l’Universo fisico è qualcosa su cui Niente e Nessuno possono intervenire dall’esterno, per postulato scientifico. Ne consegue che la storia dell’Universo in ogni suo evento dello spazio-tempo, compresa l’espansione accelerata registrata con l’osservazione delle supernovae remote, è determinata causalmente dal cono-luce degli eventi precedenti, e su via via fino al… Big Bang. Risaliamo allora al primo decimo di miliardesimo di secondo, quando ormai si è consumata la rottura della perfetta Simmetria Iniziale, sono emersi i 4 campi di forza ed alcune dozzine di eteree particelle hanno acquisito massa dall’interazione con l’Higgs. Ebbene, troveremmo che la velocità dell’espansione dell’Universo dipende strettamente, oltreché da Λ, anche dalla costante di gravitazione G, che conosciamo bene e vale 6,67 × 10-11, e dalla costante d’interazione nucleare debole g(W), che vale 1,43 × 10-62; e troveremmo che la relazione tra queste 3 costanti è tale che se G o g(W) differissero dagli attuali valori solo per 1 parte su 1050 ne risulterebbe alterato il loro preciso equilibrio con Λ e l’Universo ne sarebbe sconvolto…, ancora perdendo la sua antropicità. Dal problema del fine tuning di una costante, siamo così passati al problema del fine tuning combinato di 3 costanti. Non è finita. Essendo per altro verso g(W) collegata, in modo apparentemente accidentale, a G da una relazione numerica contenente la massa m dell’elettrone, la velocità c della luce e la costante h di Planck (altre costanti fisiche pure sintonizzate, per altre strade, al principio antropico), ecc., ecc., entreremmo nel tourbillon di quella sintonizzazione fine combinata di 20 costanti cosmologiche in cui una fisica alla ricerca di spiegazioni va a confondersi con la metafisica…

Nemmeno la strada d’interpretare quantisticamente Λ come misura dell’energia del vuoto fisico dà risultati migliori: tutti i calcoli consegnano valori errati tra le 1060 e le 10120 volte! Nessuno sa dove sbagliamo i conti, né che cosa renda infine l’energia del vuoto provvidenzialmente positiva quasi nulla. Non ci sarà qualcosa di errato nelle 2 teorie più sacre della fisica, la RG e la TQC?

Nelle prossime decadi sono previsti una serie di esperimenti (alcuni condotti nello spazio direttamente) per capire come misurare e interpretare Λ. Come nessuno si sarebbe aspettato di trovare un Universo in accelerazione 15 anni fa, così nessuno osa più fare previsioni oggi.


[i] Ancora nel 1835 il padre del positivismo, Auguste Comte, proclamava: “Il campo della filosofia positiva giace interamente entro i limiti del sistema solare, lo studio dell’Universo essendo inaccessibile in ogni senso positivo”. Nel 1838, appena 3 anni dopo il veto di Comte, col parallasse Thomas Henderson misurava la distanza di Alfa Centauri, Friedrich von Struve quella di Vega e Wilhelm Bessel quella di 61 Cygni.

[ii] Nobel per la fisica 1979 per l’unificazione delle interazioni elettromagnetica e nucleare debole, insieme ad Abdus Salam e Sheldon L. Glashow.

[iii] L’effetto Doppler ci fa capire, dalla frequenza della sirena, se un’autoambulanza si sta avvicinando o allontanando: se il suono della sirena risulta più acuto (cioè la frequenza è più alta), l’auto si sta avvicinando; se risulta più grave (frequenza più bassa), l’auto si sta allontanando. Nel caso delle galassie, le onde luminose hanno una frequenza più bassa (spostata verso il rosso) rispetto a quella attesa: le galassie si stanno allontanando.

[iv] Il paragone con l’ingrandimento d’una foto o d’un palloncino è particolarmente adeguato: nell’espansione dell’Universo infatti, non sono tanto gli oggetti astronomici a muoversi nello spazio (così come non si spostano i pixel nella foto ingrandita o le singole posizioni nel palloncino gonfiato), ma piuttosto è lo spazio a dilatarsi tra essi, cosicché la velocità di espansione può anche, per sufficientemente grandi distanze, superare la velocità della luce.

[v] Come l’orizzonte del mare non ne segna un confine reale, ma indica solo il limite della nostra visibilità (a cagione della curvatura terrestre), così vale per il limite di 14 miliardi di anni luce dell’Universo osservabile (conseguenza della velocità massima a cui ci possono pervenire segnali da qualsiasi oggetto, la velocità della luce).

[vi] La “L” greca e si legge “lamda”.

[vii] Questa supernova di tipo Ia è stata registrata nel marzo 1994 dall’HST. La luminosità dell’oggetto, distante 50 milioni di anni luce dalla Terra, risultò uguale a quella di tutto il resto della sua galassia, la NGC 4526.

[viii] Per taluni, un grave “difetto” dell’accelerazione è di falsificare i modelli con Big Crunch, confermando l’unicità del Big Bang con le relative implicazioni teologiche. Come es. della preferenza dello scenario eterno di un’infinita successione di Big Bang-Big Crunch, si può ricordare la popolare serie televisiva “Cosmos” dell’astronomo Carl Sagan, apparsa negli anni 1978-80 nelle tv americane, dove veniva proposto il modello oscillante, accompagnato da letture attinte dai testi sacri indù sui cicli di Brahma (a supplenza di evidenze fisiche mancanti).

[ix] Per misurare che cosa c’è nell’Universo, ci sono altri 2 metodi principali: l’osservazione della struttura di larga scala delle galassie (per tracciare la gravità totale e di qui desumere la quantità di materia normale esistente) e l’osservazione dell’Universo nel suo stato primordiale, quando ardeva come il Sole, nella misura della radiazione cosmica di fondo (il cui meccanismo essendo ben compreso a livello teorico ci consente ancora di calcolare quanto grossi fossero i blocchi di materia al Big Bang poi distribuitisi nelle galassie). Gli esperimenti principali col primo metodo sono stati 2dF e più recentemente SDSS, quelli col secondo metodo MAXIMA, Boomerang e più recentemente WMAP.

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GIORGIO MASIERO: giorgio_masiero@alice.it Laureato in fisica, dopo un’attività di ricercatore e docente, ha lavorato in aziende industriali, della logistica, della finanza ed editoriali, pubbliche e private. Consigliere economico del governo negli anni ‘80, ha curato la privatizzazione dei settori delle telecomunicazioni, agro-alimentare, chimico e siderurgico, e il riassetto del settore bancario. Dal 2005 interviene presso università italiane ed estere in corsi e seminari dedicati alle nuove tecnologie ICT e Biotech.

9 commenti

  1. Oh là!

    Finalmente qualcuno è riuscito a spiegarmi in maniera chiara la questione!

    Congratulazioni, ottimo articolo; se tutti i “divulgatori” fossero così semplici nella spigazione e nello stesso tempo così non banali, forse la scienza non sarebbe la reietta che è nelle mente di tanta parte della popolazione.

    Grazie

    • Mi unisco alle congratulazioni.
      Masiero è riuscito a mettere in un unico articolo la spiegazione di cosa sia il metodo scientifico con l’esposizione chiara, semplice e rigorosa, di quale sia lo stato attuale della ricerca cosmologica.

      Un testo che penso possa benissimo essere impiegato nelle scuole per fare lezione riguardo ai due argomenti. A cominciare dalla mia.

  2. Grazie anche da parte mia: bellissimo.

    L’universo nella sua espansione tridimensionale è sferico o ha altra forma? Ma poi la materia è in espansione sopra che cosa? Cioè al termine delle galassie visibili cosa troveremmo? Se l’universo si espande, andrà ad occupare altro “spazio”?
    Nell’esempio del palloncino che si espande, sulla Terra, occuperebbe un volume maggiore nello spazio di aria circostante, ma il palloncino-Universo?

    Quello che però mi colpisce di più e mi pare sia una prova del fatto che la materia-energia (anche oscura) con la sua velocità di propagazione non è l’unico costituente dell’esistente è l’entanglement quantistico.
    Se ho capito bene esiste un collegamento istantaneo di due particelle entangled poste anche a miliardi di km di distanza.

    Ovviamente aspetto le osservazioni del prof. Masiero per illuminarci ulteriormente.

  3. Buonasera a tutti,
    sono un assiduo lettore di CS da parecchio tempo, ma solitamente non intervengo perché, occupandomi professionalmente di scienze umane, ritengo che il mio bagaglio di conoscenze non sia “tarato” per partecipare con adeguata cognizione di causa alle discussioni che si sviluppano intorno agli articoli pubblicati; preferisco quindi limitarmi a leggere ed imparare.

    Essendo però un astrofilo, ed occupandomi quindi anche di Astronomia (seppur ovviamente a livello amatoriale), non posso fare a meno che congratularmi con il Prof. Masiero per la brillante trattazione, in cui si denotano (come sempre nei suoi articoli) un’ottima chiarezza espositiva e un grande rigore scientifico. La ringrazio quindi per i suoi continui profondi spunti di riflessione e le sue lezioni scientifiche.

  4. Giorgio Masiero on

    Ringrazio tutti per i gentili apprezzamenti.
    Rispondo velocemente alle domande di frank10.
    “L’universo nella sua espansione 3-dimensionale è sferico o ha altra forma?”: l’espansione dell’Universo è 4-dimensionale, perché la dilatazione dello spazio avviene al dilatarsi del tempo. Dalle assunzioni d’isotropia (e di perfetta simmetria iniziale al Big Bang) si deducono modelli spaziali sferici.
    “Ma poi la materia è in espansione sopra che cosa? Se l’universo si espande, andrà ad occupare altro “spazio”? Nell’esempio del palloncino che si espande, sulla Terra, occuperebbe un volume maggiore nello spazio di aria circostante, ma il palloncino-Universo?”: nella visione classica, newtoniana, lo spazio è un contenitore infinito, vuoto ed immobile nel quale si muovono i corpi celesti al trascorrere lineare del tempo. Nella RG questo non è più corretto, per almeno 2 motivi: il primo, che lo spazio non è separabile dal tempo; il secondo che lo spazio-tempo non è separabile dalla materia-energia presente nell’Universo. Se nell’esempio del palloncino isoliamo la dilatazione superficiale 2-dimensionale del palloncino dallo spazio 3-dimensionale che lo contiene, il rigonfiamento del palloncino si traduce in un’autentica creazione di nuovo spazio 2-dimensionale (prima inesistente, e quindi non sottratto ad altre varietà geometriche) tra i suoi punti. Così accade per la “superficie” 4-dimensionale dell’Universo (che non è contenuta in nessun iperspazio 5-dimensionale): essa si dilata nelle sue 4 dimensioni spaziali e temporale e, come nuovo tempo è creato senza che questo crei alcun problema alla nostra immaginazione (perché non viene sottratto a nessun iperserbatoio temporale), così nuovo spazio è creato dal nulla.
    “Al termine delle galassie visibili cosa troveremmo?”: questa è una domanda filosofica, non scientifica, perché priva di falsificabilità (non potendosi superare la velocità della luce). La mia risposta filosofica è: altre galassie, probabilmente.
    Sull’entanglement quantistico tornerò quando avrò il tempo di scrivere l’articolo che ho promesso sulla MQ.

  5. Pingback: Blog dei blogs: breve rassegna web – 02 | Croce-Via

  6. Eccellente articolo, i miei complimenti all’autore, sarebbe bello dar vita ad un’associazione di professori e dirigenti ( almeno quelli dei licei ) perchè insegnino queste cose a scuola, assieme alle bufale del “darwinismo” e alle gravi conseguenze sociali e storiche che questa ideologia ha portato con se.

    Purtroppo le scuole in generale sono piene di ex 68′ , non solo come età ma soprattutto come mentalità, e tra una canna ed un acido si sa che si rischia di perdere la lucidità.

    • Uno dei dieci on

      Abbia più rispetto di chi lavora e non la pensa come lei, generalizzare a tal maniera è sintomo di pochezza di idee e preconcetti da bar sport.

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