Il declino del “modello tedesco”

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Ascoltando i notiziari si ha la percezione di una Germania forte che dall’alto del suo modello economico vincente impone le regole agli altri.

Ma in realtà si tratta di un paese in forte declino e sull’orlo di una crisi che non sarà possibile nascondere. Un’analisi di Giacomo Gabellini.

Il declino del “modello tedesco”

Di Giacomo Gabellini

La Germania è sull’orlo di una crisi di nervi. Lo dimostrano i campanelli d’allarme suonati di fronte alla sempre più concreta prospettiva dell’Hard Brexit da alcuni tra i più autorevoli esperti tedeschi del settore. Personaggi del calibro del presidente dell’Associazione delle Camere di Commercio Tedesche e dell’Industria (Dihk) Eric Schweitzer, del presidente della Federazione delle Industrie Tedesche (Bdi) Dieter Kempf e del presidente del Leibniz-Institut für Wirtschaftsforschung (Ifo) Clemens Fuest), accomunati dal timore che l’iniquo accordo sull’uscita dalla Gran Bretagna dall’Unione Europea – che per il sempre puntuale Ambrose Evans-Pritchard implica «il sacrificio dell’economia britannica alle condizioni che favoriscono Bruxelles» – raggiunto dalla Commissione Europea con una quanto mai arrendevole Theresa May incorra nella bocciatura da parte del Parlamento britannico. Nel qual caso, i volumi di export tedeschi verso la Gran Bretagna ne uscirebbero fortemente ridimensionati (del 57%, secondo alcune stime) mettendo così a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro in Germania. Il che che andrebbe ad aggravare una realtà già di per sé piuttosto problematica per la Bundesrepublik.

Specie in seguito all’ascesa al potere di Donald Trump, la Germania è infatti divenuta oggetto primario delle “attenzioni” degli Stati Uniti, i quali hanno l’intenzione, esplicitata pubblicamente dal segretario di Stato Mike Pompeo durante un discorso presso il German Marshall Fund di Bruxelles, di dar vita a un “nuovo ordine liberale” costruito su misura del concetto trumpiano dell'”America first“. Un sistema, insomma, che ponga in cima alla scala delle priorità la tutela gli interessi nazionali, minacciati, a detta di Pompeo, dal fronte delle organizzazioni internazionali che riunisce al proprio interno Unione Europea, Onu, Fmi e Banca Mondiale (liquidati sprezzantemente come “strumenti obsoleti”), e concepito, come spiega Guido Salerno Aletta, per «riequilibrare il commercio mondiale, passando dal free trade al fair trade: occorre tornare ad un sistema commerciale [di tipo]multipolare. Anche dal punto di vista militare. Il controllo dei comportamenti sociali con l’intelligenza artificiale, i cambiamenti climatici drammatici, le piattaforme finanziarie innovative, domineranno il mondo nei prossimi anni. Controllo militare, finanziario, sociale diventeranno un’unica sfida. Ma nessuna sfida può essere vinta da chi è diventato il più grande debitore mondiale. Questa è la svolta americana, ora più che mai difficilissima». 

La riconfigurazione dell’architettura economica europea nella direzione indicata da Pompeo richiede in primo luogo il “sabotaggio” della macchina esportatrice tedesca. La prima voce a levarsi contro di essa è stata quella del direttore del National Trade Council Peter Navarro, che nel gennaio 2017 parlò dell’euro come di un “marco implicito” la cui bassa quotazione è garanzia di enormi vantaggi per l’export tedesco ed assicura alla Germania la possibilità di continuare a deprimere il consumo interno in un’ottica di crescita basata sulla disponibilità altrui ad importare beni di fabbricazione tedesca e sulla capacità di assorbimento dei mercati esteri. Tra di essi spicca proprio quello statunitense, che la Bundesrepublik si impegna regolarmente a sostenere destinando i proventi delle esportazioni (anche) all’acquisto di masse considerevoli di Treasury Bond. In Germania, infatti, «le aziende, le famiglie e il governo sono tutti risparmiatori netti, che spingono i loro risparmi all’estero e contribuiscono a un surplus commerciale che supera l’8% del Pil […]. Durante la crisi finanziaria le banche tedesche, le compagnie assicurative e i fondi pensione hanno perso una cifra tra i 400 e i 600 miliardi di euro». Oltre, peraltro, ad accreditarsi come grande esportatrice di capitali guadagnati con l’export, la Bundesrepublik appare agli occhi dei risparmiatori europei come uno dei pochissimi porti sicuri in tutto il “vecchio continente, e ciò si traduce in massicci acquisti di Bund nonostante il loro rendimento reale negativo. Ciò consente al governo di Berlino, che può già contare sulla disponibilità delle banche pubbliche e delle casse di risparmio municipalizzate a comprare titoli di Stato tedeschi (come accadeva in Italia prima della privatizzazione dell’intero comparto bancario), di dedicarsi alla riduzione del debito pubblico senza scaricarne il peso sui contribuenti.

Di primo acchito, l’apparato dirigenziale tedesco ha reagito alle manovre Usa limitandosi a ribadire più e più volte i grandi vantaggi globali assicurati dal libero commercio e l’apporto delle aziende tedesche alla prosperità economica statunitense. Molte di esse hanno effettivamente impiantato i propri stabilimenti; basti pensare a Bmw (a Spartanburg, South Carolina), Daimler (a Tuscaloosa, Alabama, e a Charleston, South Carolina), Volkswagen (a Chattanooga, Tennessee), Basf (a Geismar, Louisiana, e a Freeport, Texas), Bayer (a New Martinsville, West Virginia) e Siemens (a Jackson, Missouri). Senonché, come ha fatto notare lo stesso Navarro in un articolo pubblicato dal «New York Times»,

«mentre i dazi statunitensi applicati alle automobili prodotte in Germania o altrove nell’Unione Europea sono al 2,5%, le tariffe applicate dall’Unione Europea sono quattro volte più alte e si collocano attorno al 10%. Non stupisce quindi che la Germania venda in America tre automobili per ogni macchina che noi esportiamo in Germania. Anche quando le case automobilistiche tedesche costruiscono impianti negli Stati Uniti, queste cosiddette fabbriche sono per lo più stabilimenti di assemblaggio. I Suv della Bmw serie X assemblati negli Usa contengono soltanto il 25-35% di componenti prodotte negli Stati Uniti, mentre quelli di maggior valore come motori e trasmissioni sono costruiti in Germania e in Austria […]. È arrivato il momento per i nostri partner commerciali più importanti- dai concorrenti strategici come la Cina ai Paesi membri del G-7 – di rendersi conto che l’epoca della compiacenza americana nei confronti degli scambi commerciali è finita».

Le osservazioni di Navarro – non certamente infondate, come testimoniato dal fatto che, alla fine del 2017, il solo settore automobilistico aveva contribuito al surplus commerciale tedesco rispetto agli Stati Uniti per ben 24 miliardi di euro – sono coincise con provvedimenti piuttosto coerenti; alle tariffe su alluminio e acciaio e alla radicale riforma fiscale introdotta nel 2018, destinata ad avvantaggiare le aziende Usa ai limiti del protezionismo, ha infatti fatto seguito l’importantissimo accordo commerciale raggiunto nell’estate del 2018 tra Stati Uniti e Messico relativo alla creazione di un’area di libero scambio concepita specificamente per colpire l’export automobilistico tedesco. Per sfuggire al regime tariffario, ogni auto venduta sul mercato interno dei due Paesi dovrà infatti essere composta per il 75% (contro il 62,5% del Nafta) da elementi (motore e cambio inclusi) fabbricati in stabilimenti statunitensi e messicani; il 45% di essi, dovrà inoltre essere prodotto da operai che ricevano come minimo 16 dollari all’ora di stipendio – il nuovo accordo introduce anche misure atte a favorire la contrattazione collettiva. Le componenti in acciaio e alluminio dovranno inoltre provenire interamente da Stati Uniti e Messico, conformemente all’obiettivo di Trump di riportare la produttività degli stabilimenti siderurgici Usa all’80% della loro capacità riducendo così le forniture straniere. Si tratta di un accordo cruciale, perché va a ridefinire nella sostanza la struttura portante del Nafta orientandolo in una direzione opposta a quella – consistente essenzialmente nel favorire il dumping salariale – per la quale l’accordo era stato concepito originariamente. Dopo settimane di dure trattative, il Canada ha a sua volta messo da parte le proprie riserve decretando l’adesione all’intesa, che ha assunto il nome di United States-Mexico-Canada Agreement (Usmca).

La sottoscrizione del trattato ha prodotto risultati in maniera piuttosto rapida, dal momento che, a pochi mesi di distanza, alcuni dirigenti di punta delle maggiori case automobilistiche tedesche intimoriti dalle manovre di Washington sono stati ricevuti alla Casa Bianca per concordare con Trump e i suoi collaboratori un piano di investimenti in territorio statunitense finalizzato a creare posti di lavoro negli Usa e ridurre allo stesso tempo gli squilibri commerciali tra Stati Uniti e Germania. Le mosse più concrete in questa direzione sono state compiute dai dirigenti di Volkswagen, i quali hanno gettato le basi per la costruzione di un’alleanza con Ford in base alla quale il gruppo tedesco trasferirebbe parte della produzione europea nelle fabbriche sottoutilizzate di Detroit di proprietà dell’impresa automobilistica Usa, condividendo allo stesso tempo con quest’ultima i propri stabilimenti presenti nel “vecchio continente”. Secondo alcune voci di corridoio, Volkswagen avrebbe addirittura ventilato l’ipotesi di costruire un nuovo impianto negli Stati Uniti per la fabbricazione di auto elettriche, qualora il progetto per l’ampliamento del complesso produttivo Chattanooga dovesse essere accantonato. Bmw, invece, ha iniziato a valutare la possibilità di edificare un sito in territorio statunitense dedicato specificamente alla produzione di motori e trasmissioni. Dal punto di vista dell’apparato dirigenziale tedesco, il trasferimento degli stabilimenti produttivi negli Usa risulta indubbiamente funzionale a placare l’irritazione di Washington, ma è allo stesso tempo gravido di pesanti ripercussioni sulla situazione occupazione sia in patria che nei Paesi limitrofi. Specialmente in virtù del fatto che il processo di delocalizzazione finirebbe verosimilmente per coinvolgere l’intera catena del valore tedesca di cui fanno parte anche colossi quali Siemens e Bosch, che oltre a fornire la componentistica alle case automobilistiche tedesche sono partecipi del loro capitale azionario. 

In gioco, in altre parole, c’è la tenuta del delicatissimo compromesso tra capitale e lavoro su cui si regge la conservazione del “modello tedesco”, sul quale, oltre alle “neoprotezionismo” trumpiano, aleggiano le ombre minacciose del rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve, della Hard Brexit e del riorientamento dell’economia cinese verso il potenziamento del mercato interno. Tra il 2007 e il 2017, il peso delle esportazioni sul Pil cinese è infatti diminuito dal 34 al 19%, mentre quello delle importazioni è sceso dal 27 al 15%. Stessa traiettoria hanno seguito gli Stati Uniti, il cui interscambio complessivo con l’estero (import cumulato all’export) non supera il 20% del Pil. Per la Germania, la situazione appare invece ben più grave, visto e considerato che se nel 1997 il suo export pesava per il 23,1% sul Pil, nel 2007 si è arrivati a quota 38,4% e nel 2017 alla soglia del 39,3%. L’Italia, convertita progressivamente al modello tedesco, ha anch’essa incrementato la propria dipendenza dall’export. Se nel 1997 le vendite all’estero pesavano il 19,4% del Pil, nel 2007 si è passati al 22,7% e nel 2017 al 26,1% – la Francia, invece, è rimasta grosso modo sugli stessi livelli tra il 1997 e il 2017. 

Beneficiando di una moneta eccessivamente debole rispetto alla propria potenza economica, l’apparato industriale tedesco ha inoltre perso l’incentivo – prima garantito dall’inflessibile ortodossia della Bundesbank – a procedere a continue ristrutturazioni aziendali e a investire in ricerca e sviluppo al fine di rilanciare la competitività del made in Germany sui mercati internazionali. Questo adagiarsi sugli allori, associato all’austerità ordoliberale imposta sia a sé che agli altri membri della struttura comunitaria, ha condannato l’intera Unione Europea a un forte ritardo tecnologico certificato da dati inequivocabili. Nel 2015, Stati Uniti, Cina e Giappone, vale a dire i principali concorrenti dell’Unione Europea, hanno messo insieme rispettivamente il 30%, il 27% e il 15% dei brevetti su scala mondiale, a fronte di un “misero” 14% realizzato dall’Unione Europea – che vanta una popolazione cinque volte superiore al Giappone. Anche un Paese dalle dimensioni relativamente ridotte come la Corea del Sud è riuscita a “doppiare” la Germania per numero di brevetti grazie ai colossali investimenti in istruzione e ricerca. Anche lo stesso settore automobilistico, su cui la Germania continua a puntare con convinzione pur trattandosi di un segmento di mercato maturo e in fase di obsolescenza, ne ha fortemente risentito, come testimoniato dal forte ritardo accumulato dall’industria tedesca nella produzione di batterie a celle che dovrebbero essere installate sulle autovetture del prossimo futuro. La dipendenza dall’Asia, già pesantissima relativamente a componenti per computer e smartphone, si potrebbe verosimilmente estendere anche a questo delicatissimo comparto.

La Germania, per dirla con l’economista Ashoka Mody, sembra insomma delinearsi sempre più come «una nazione che sta scivolando involontariamente tra le file dei cavalli perdenti», di fronte alla quale si prospettano tempi piuttosto difficili.

 

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Giacomo Gabellini, scrittore e ricercatore di questioni storiche, economiche e geopolitiche. Ha pubblicato: “Eurocrack. Il disastro politico, economico e strategico dell’Europa“, “Caos – Economia, strategia e geopolitica nel Mondo globalizzato” – 2014, “Ucraina. Una guerra per procura” – 2016, “Israele. Geopolitica di una piccola, grande potenza” – 2017.

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