Inevitabilmente è arrivato il blocco su YouTube, ecco il modo per continuare a pubblicare liberamente.
Quando si pubblicano contenuti politicamente scorretti essendo ospiti in casa altrui, e una casa molto politicamente asservita, il blocco e altre forme di pressione sono inevitabili.
E’ arrivata infine la censura del video in cui riportavo gli studi sulla inefficacia dei lockdown, nel video riportavo studio scientifici di alto livello ma questo ai controllori della “Community” di YouTube non è bastato e così il 24 marzo scorso mi è stata notificata la sospensione del canale e la rimozione del video con la motivazione di “disinformazione in ambito medico”
Ho quindi reclamato facendo notare che avevo solamente ripotato studi scientific di alto livello:
Il ricorso è stato quindi immediatamente respinto senza spiegazioni:
Niente che possa sorprendere più di tanto, a questo punto ho attuato un sistema che avevo ideato per non essere più censurato, si tratta di una combinazione del canale Telegram su cui metterò i link a tutte le nuove pubblicazioni e un nuovo canale video su Rumble dove metterò i video più esposti a censura.
Qui di seguito i link, per restare aggiornati è opportuno iscriversi ad entrambi i canali.
Grazie a tutti voi.
Telegram: https://t.me/EnzoPennetta_CS
90 commenti
Finalmente si è deciso a lasciare YT….
Vede Sig. Pennetta, dare colpa a Youtube dopo un anno di pandemia, che questi non permettano oggi nulla riguardante la pandemia, io non do la totale colpa a loro in quanto sappiamo bene che lo avrebbero fatto.
Fortunatamente ci sono piattaforme alternative che possono coprire tale deficit, allora non capisco perché vi ostiniate a fare “grande” un canale come Youtube il quale si “sa” che applica la censura tanto temuta?
YouTube vive benissimo senza di noi ma a noi può ancora fare comodo.
Per questo si va su Rumble ma si lascia YouTube.
Prof. Pennetta, io trovo i suoi video sul sito “Davvero TV”, non credo di aver nemmeno capito cosa sia un canale Youtube (anche se mi dispiace che glielo abbiano chiuso) o un canale Telegram/Rumble. A parte questo, spero di leggere presto un suo articolo dedicato alla puntata di stasera su Rai Tre, dove si parlerà dell’ipotesi di origine artificiale del coronavirus.
Il servizio, ottimo, l’ho visto in parte e da quello che viene detto è una conferma a quanto sostenuto qui già dalla primavera 2020.
Bene che si provi a parlarne anche se la resistenza è forte.
INTERVENTO SCOMPOSTO
Questa guerra delle (alle) censure mi ricorda tanto le prime ‘guerre’ di Grillo contro il sistema politico e dell’informazione. Applausi nei teatri seguiti da entusiastici pellegrinaggi ai tornelli elettorali. Il vizio di fondo sembra il medesimo di allora: colpire il sistema (dell’informazione in questo caso) coi mezzi messi a disposizione dall’informazione stessa. L’abbaglio di un’illusione che si ripete: mettere a posto un sistema che in fondo, nelle giuste mani funzionerebbe magnificamente, un sistema che ha le carte in regola per autoregolarsi e rinnovarsi senza traumi.
Un rinnovamento non potrà mai prender piede sulle piattaforme digitali, sulla rete, sulle sole chiacchiere. Senza questi strumenti – c’è da giurarci – i giovani saprebbero bene cosa fare e come comportarsi, specie quando la pancia comincerebbe a stimolare le prime scintille di una sopita funzionalità neuronale.
Il Portatore del nuovo deve saper essere prima di tutto distruttore, non certo pacifico e accogliente fruitore, del vecchio. Il rinnovamento prevede un sacrificio a monte, una disposizione cioè a perdere qualcosa di prezioso. Se il signor Paolo avesse vent’anni e qualche toppa al culo, saremmo certamente a cavallo. Ma i ventenni invece smanettano comodi comodi sulle loro tastiere fiammanti, pensando così (con la tecnologia informatica) di rovesciare il mondo dei cattivissimi poteri plutocratici padroni della finanza mondiale, i quali, viceversa sembra proprio non la smettano più di benedire chi, le tastiere , pare un giorno averle inventate. Amen
Siamo tutti orecchi, tutti social, tutti teledipendenti…
Io la mia ricetta ce l’avrei. Dedichiamoci all’orto, sporchiamoci le mani di terra e letame, coltiviamo tante cipolle e mangiamole crude, piantiamo un albero e poniamoci sotto una sedia di lettura di libri e fumetti d’autore.
Azzeriamo i social, cinguettii compresi (senza chi li ascolta non contano una minchia e si spengono da soli a brevissimo giro).
Queste utopie che ho fatto mie, assieme alla coltivazione dei santi lithops, le piante che insegnano l’arte della pazienza e dell’essenziale, alla lunga sconfiggeranno tutto il male del mondo.
Ah, nell’orto, meglio se comunitario, non dimentichiamo i peperoncini piccanti e un’arnia da miele e propoli (antivirale per eccellenza). Di questi tempi in cui tutti sanno tutto, e quel tutto sa di cadavere, tanti si dimenticano che senza il prezioso lavoro degli insetti pronubi andremo tutti a puttane ben prima della prevista apocalisse prossima ventura.
Concordo sul fatto che il mondo non si salverà grazie a internet, però bisogna prendere atto che internet esiste e ha enorme influenza, e non è utile, né intelligente lasciare tutto lo spazio al “pensiero unico”, a chi lo dirige e a chi lo segue. Ovviamente non c’è da illudersi di cambiare le cose dall’oggi al domani, si tratta semplicemente di “fare cultura”, con modi e contenuti diversi dal “pensiero unico”. Da questa cultura, chissà, forse dopo anni/decenni verrà qualcuno in grado di cambiare qualcosa, ma se anche non venisse, si potrà comunque dire di averci provato. La scelta di ritirarsi a coltivare il proprio orticello (a meno di essere monaci benedettini, al motto di “ora et labora”) è una tentazione che pure io sento fortissima (almeno metaforicamente, non ho orto/giardino), ma mi pare appunto una tentazione, e ho grandissima ammirazione per chi come il prof. Pennetta ci mette la faccia e, sapendo di andare controcorrente, prova a fare cultura, sapendo farla (citando studi pubblicati su riviste internazionali, non banali “secondo me”).
I mezzi non sono messi a disposizione dall’informazione ma sono certamente in mano ad altri e come nel caso YouTube sono in mano all’avversario.
Cionondimeno si possono utilizzare così come nella guerriglia si usano le strade e il territorio in mano al nemico e la cosa è così efficace che l’avversario ti chiude i canali e fa di tutto per non farti parlare.
E’ un confronto asimmetrico ma non impossibile, se poi gli interessati non si daranno da fare non dipende da noi, di sicuro se non ci proviamo non riusciremo.
@FABIO PB,
intervento perfetto, lei è uno dei pochi ad aver capito che con le buone intenzioni, e conseguenti strategie sbagliate, non si sposta neppure un granello di polvere.
Ha messo, correttissimamente, l’accento sul “sacrificio a monte” necessario perché si accenda una scintilla durevole, e questa faccia divampare un incendio. Persino amici qualificati e anticoviddari certificati, non hanno appieno compreso la natura di questa crisi. Non è una cosa da cui si potrà tornare indietro, non si sono aggiustamenti possibili; in questo, paradossalmente, hanno ragione i capovolti che hanno programmato e posto in atto l’Operazione Covid. Non c’è ritorno, ci sarà necessariamente un GRANDE RESET. Ho rinunciato a fare previsioni, anche a breve termine, il processo innescato è unico in tutta la storia conosciuta; nessuna crisi precedente (neppure la caduta di imperi), ha avuto un impatto globale e talmente pervasivo dell’ordine culturale ed antropologico, come questa. Abbiamo il discutibile privilegio di esserci trovati in piena Apocalisse. Tre cose mi appaiono certe:
1°, non si è ancora toccato il fondo;
2°, il trionfo dei capovolti si avvicina velocissimamente;
3°, esso apparirà tanto abbagliante, quanto sarà effimero, brucerà le ultime possibilità tenebrose che hanno reso possibile questo sinistro carnevale; ed infine – abbacinante per tutti i deviati, ma liberatorio per i pochi normali (semplicemente normali) che hanno resistito – spunterà il nuovo Sole.
Quando tutto questo accadrà? Non lo so, se lo sapessi non ne parlerei. Anni fa, mi interessai al tema apocalittico, fin quando non compresi due cose:
A, per qualsiasi mente umana esso è un labirinto, e lo è perché solo Dio può custodire il segreto della fine di un mondo. Il che porta a B;
B, cercare di risolvere l’enigma dell’inizio dell’attuale Ciclo, per la ragione addotta, è un atto di superbia. Forse c’è il modo di saperlo, ma temo che la sua conoscenza non porterebbe bene a chi la possedesse.
E ciò nonostante, numerosissimi segni lasciano intendere, con probabilità prossima alla certezza, che la fase conclusiva del Kali Yuga, dopo i prodromi del 2008/2012, sia con l’Operazione Covid entrata nello stadio finale. Chi arriverà indenne al 2030, forse 2035 (dubito oltre), credo mi darà ragione. E scommetterei che qualcosa di sconvolgente, ma forse non conclusivo, accadrà entro il 2025.
E allora, che fare? Quando fu chiesto al Buddha di autodefinirsi, una volta risposto negativamente ad ogni proposta dell’interlocutore (sei un uomo? Sei un dio? Sei un uomo-dio? Ecc…), rispose, magnificamente: “IO SONO SVEGLIO”.
Ciascuno vegli a seconda della Grazia che gli è concessa. Non prevarranno, ma prepariamoci a soffrire.
“Ricordati che devi morire” non le basta? Intanto mi segno la data del 2025… Già qualche tempi fa un medico santone mi aveva pronosticato che non avrei visto la conclusione del 2015. A oggi son sei anni che dovrei essere sepolto.
Il sottoscritto non ha mai avuto una profonda sensibilità in tema religioso, ed anche tutt’oggi diffida fortemente di profezie, veggenti indovini e santoni…. ma da un anno a questa parte non riesce a far a meno di notare come sia in atto una profonda trasformazione non tanto del mondo in cui vive, ma dello stesso genere umano che rischia di subire una irreversibile mutazione in qualcosa di decisamente peggio,
Una trasformazione i cui prodromi si potevano avvertire già da moltossimo tempo; almeno dieci/dodici anni fa, se non prima.
Ne approfitto per farLe i miei più sinceri auguri di una Buona Pasqua anxhe a lei ed a tutta la Sua famiglia.
Grazie, ricambio di cuore. E credo che i fatti la smentiranno, e che tutti torneremo al sano ottimismo e alla speranza che non muore mai.
Spero proprio che abbia ragione lei, così come le auguro sinceramente di poter aggiungere ancora tantissimi anni a quel famoso conteggio…..
Sta di fatto che, tra tutte le altre cose, la somministrazione forzata su esseri umani di farmaci sperimentali, anche su bambini, sta divenendo prassi comune,; e questo lo trovo decisamente preoccupante.
Ancora Buona Pasqua.
Buongiorno Francesco….
In questa suo intervento prima ha parlato di Apocalisse, che fa riferimento alla tradizione cristiana; successivamente ho poi menzionato il Kali Yuga che invece è proprio dell’Induismo ed infine ha accennato al Buddha.
Mi permetta la domanda, ma non le sembra un po’ contraddittorio, soprattutto per uno come lei che si riconosce apertamente nel cristianesimo ?
Non per sarcasmo o altro; solo per comprendere meglio il suo pensiero.
Grazie
Buon giorno a lei, rag. Giovanni,
cominciamo dalla fine.
Mi definisco cristiano perché lo sono, prima di tutto, di fatto. Essere nato in una Cultura Cristiana è un fatto che ho subito, non una mia scelta. Essere stato battezzato, idem, non l’ho scelto io. Sono rimasto cristiano, poi, quando ho compreso che la Religione fondata da Cristo è vera; anche se questo non implica affatto che le altre sono false. Molto probabilmente questa mia affermazione darà scandalo, cosa di cui mi faccio senza difficoltà una ragione. Circa questo punto, ad ovvie obiezioni del tipo “extra ecclesia nulla salus”, oppure sull’unicità ed irripetibilità di Cristo, ho esaurientemente risposto circa un paio di anni fa, in un serrato contraddittorio (con una utente che mi accusava nientemeno che di eresia) in margine a due miei lunghi articoli pubblicati su richiesta del Prof. Masiero, riguardanti resoconti di due tra i “pellegrinaggi” spirituali che intrapresi in gioventù ai quattro punti cardinali. Chi fosse interessato, troverà lì delle risposte adeguate.
Tornando allo specifico, gentile Rag. Giovanni, non colgo la ragione della sua perplessità; giacché i miei riferimenti non concernevano fatti dottrinali specifici, legati a Dogmi, né nulla che avesse a che fare con la sfera metafisica e delle specifiche forme religiose. Su queste ci può ed anzi ci deve essere divergenza, giacché, appunto, si sta parlando di FORME, che non possono essere miscelate, assimilate, accomunate, in un triviale ecumenismo alla niueig, o, molto, peggio, alla Bergoglio. Sul piano formale, storico, exoterico, è del tutto ovvio che le religioni si escludono vicendevolmente, ed entro questo ambito può essere corretto affermare che solo la propria è quella vera (comunque, per chi volesse approfondire, rimando a quegli scritti).
Dunque, non stavo parlando di principi dottrinali, ma di cosmologia, e questa, se corretta, e perché lo sia deve essere di origine soprannaturale, non può che essere comune in tutte le Tradizioni spirituali; ovviamente, ciascuna con specifico riguardo al proprio quadro ipostatico, e alla peculiare concezione dello svolgersi temporale; lineare o circolare. Atteso questo, non può darsi un evento apocalittico per gli Indù, un altro per i taoisti, ed un altro per i musulmani, o i cristiani; e l’ovvia controprova l’abbiamo sotto gli occhi, la crisi, lo sconvolgimento, sono globali.
Ora, a mia conoscenza, la Cosmologia più completa è quella Indù, incomparabilmente più dettagliata ed articolata di qualsiasi altra; si noti che gli Indù avevano scoperto e calcolato in modo preciso la durata della precessione degli equinozi (processo indissolubilmente legato ai cicli cosmici), quando Roma era una palude, e di Cristo nessuno aveva sentito parlare. L’Apocalisse giovannea, pur certamente ispirata divinamente, è senza confronto meno accurata della descrizione degli eventi fine ciclo come narrati nei “Purana”; anche se, di fatto, dicono le stesse cose.
Quanto al mio riferimento al Buddha, naturalmente, non v’era nessuna implicazione di tipo cosmologico; ho solo colto l’occasione per far rilevare l’importanza assoluta di essere svegli, condizione, fra altre cose, messa in risalto come discriminate anche da Cristo.
Spero di essere stato utile.
La ringrazio della Sua esauriente spiegazione….
Lei fa riferimento anche ad alcuni suoi scritti di qualche anno fa; potrebbe cortesemente indicarmi come reperirli ?
Mi perdoni se continuo ad abusare della Sua pazienza.
Grazie ancora
Gentile Rag. Giovanni, le assicuro che non sta affatto abusando di nulla, ed anzi, discutere, quando v’è argomento, è sempre un piacere.
Trova questi miei due articoli di tre anni, nella sezione antropologia. Sono resoconti di due dei miei viaggi di approfondimento spirituale, uno presso il monastero Ortodosso di Valaam, l’altro in un’India senza tempo, e a stento in questo spazio. Ecco, non ricordo se nei commenti del primo o del secondo articolo, troverà un approfondimento del tema dell’unità Trascendente (NON immanente, sia chiaro, nessun sincretismo) di tutte le autentiche Vie Spirituali.
Confido possa esserle di qualche utilità.
https://www.enzopennetta.it/2018/05/la-malattia-il-cancro-la-sofferenza-nelle-considerazioni-di-due-uomini-di-dottrina-e-preghiera-di-culture-e-religioni-diverse-seconda-parte/
@FRANCESCO
La ringrazio ulteriormente della Sua gentilezza e cortesia….
Nel farlo approfitto dell’occasione per inviarLe i miei più cordiali auguri di una Buona Pasqua anche a tutta la Sua famiglia.
Purtoppo concordo pienamente sul fatto che siamo in una “Apocalisse” non apparentemente provocato dalla Divinità, ma i tempi per misurare ciò che ne sarà degli umani, penso sia molto più limitato. Quando su questa Terra un congruo numero di umani adulti sarà stato “adulterato” dai vaccini, allora saremo chiusi in una morsa invincibile da mezzi umani; pochi uomini, per mezzo dei bio chip innestati nel corpo attraverso i “Vaccini obbligatori”, saranno senza possibilità di reazione da parte di coloro che ne saranno stati fraudolentemente innestati, zombie come me (il mio sito):
https://guerraocculta.altervista.org/
Allora, con l’esercito ampiamente vaccinato, i cittadini possibilmente ancora resistenti resi assolutamente impotenti, lo scempio sulla maggior parte del genere umano potrà inziare facilmente, da parte degli psicopatici padroni del “sistema” criminogeno instaurato. Il termine ultimo da considerare è il numero dei vaccinati tra la popolazione attiva, oltrepassato un certo limite, o vi sarà la fine dell’umanità o un miracolo.
Correzione: molti uomini, non pochi…
Non so se ci avete fatto caso, io sì. Questo luogo, il blog di Enzo Pennetta, quello che in modo dignitosissimo e calzante veniva definito un bar, un’osteria col suo brillante oste sempre presente, si è nel tempo trasformato, a mio avviso regredendo, in un ruolo privo di anima. L’oste vivo e presente è scomparso per lasciare il posto ai suoi cloni in video che puoi vedere quando vuoi, tutte le volte che vuoi, focalizzando il secondo esatto in cui ha detto questo e quello. In una sorta di bacheca delle cose dette, tutte belle catalogate.
Gli ospiti, escluso il sottoscritto che sotto diversi nick name e umori è perennemente e fastidiosamente presente per certuni, si sono rarefatti, lasciando spazio a una platea di lettori/ascoltatori silenziosi che spero numerosi, ma ne dubito, e a una manciata di interventisti sui quali sovrasta da un bel po’ quello che considero alla stregua di una cassandra…
Che bei tempi quelli di Leonetto, Htagliato, sto coi frati e zappo l’orto, uno dei dieci, e moltissimi altri tra i quali gli eccellentissimi prof. Masiero e Greylines… L’abbandono di Masiero mi è rimasto di traverso, anche per la mancanza dei suoi signorili interventi, sempre utili e costruttivi, mai rabbiosi e apocalittici. Ma sto invecchiando se ammanto il passato di tali nostalgie canaglie. Però chiedo se c’è ancora qualcuno dei vecchi amici di penna in ascolto che possa battere un colpo.
Tanto ci basterebbe per tornare felici, eh, Enzo?
Sempre presente e con grande piacere ti seguo.Concordo con te su la grande tristezza nel non poter leggere lo scontro civilissimo tra Enzo vs Greylines;gli articoli tonanti di Leonetto e L’Alta Cattedra del Prof.Masiero ;senza ovviamente dimenticare nessuno(compreso “il friulano doc”).Mi manca pure il geniale Htagliato,sia ben chiaro.I presenti,tu compreso, tengono in piedi una dialettica molte volte interessantissima ma un po’ lontano da quella scuola di stile greco basata sul tema principale Darwin si Darwin no.Una scuola che non può essere abbandonata,tenendo conto l’aridità culturale in cui è sceso il livello nazionale.Auguri grande Giuseppe.
Approfitto della notte per specificare(se necessario):per” Scuola di stile greco” intenderei soltanto riferirmi all”Amore per il sapere matrice principale dei greci antichi e dei loro splendidi filosofi e pensatori.ps.Fra un po’ vado a dormire,più tranquillo.
Auguri anche a te grande sto co’ frati e zappo l’orto, il tuo nick name che ti contraddistinguerà per sempre. Un abbraccione
E’ stato chiuso Byoblu: tutti coloro che patiscono sentirsi ripetere che siamo di fronte al processo tipico che porta alle peggiori dittature, che il mondo attuale è dominato da un gruppo di criminali, che la condizione che viviamo, già oltremodo miserevole, segue una chiara tendenza ed un chiaro progetto di peggioramento, e tante altre cose fastidiose di questo genere, possono tirare finalmente un sospiro di sollievo, speranzosi, s’intende, che gli altri fastidiosi presto lo seguano, oppure ritornino buoni e tranquilli…
Chiarirei che è stato chiuso il canale youtube di Byoblu, le norme della community le si conosceva fin dall’inizio. E a quanto ne so prima di chiudere un canale ne corre di tempo. Era nell’aria per una serie di motivi che non sto qui a sindacare. Ma non parliamo per favore di “peggiori dittature” ché si rischia di far rizzare i peli delle braccia a chi le peggiori dittature le vive davvero.
I motivi della chiusura oltre che ingiusti, perché si trattava di semplice esposizione di notizie indubitabilmente vere oppure di opinioni legittime. Ove, poi, si faccia solo una panoramica a campione dei video che girano tranquillamente su youtube senza che nessuno si sogni di spegnere i relativi canali, questi motivi sono anche letteralmente risibili e non si può parlare di “motivi da non sindacare” per la chiusura di un canale che era visto da più di 500.000 persone. Quanto al mio riferimento alle dittature, non devo essere stato molto chiaro, perché Lei proprio non l’ha inteso: non ho scritto che siamo nella peggiore delle dittature, anche se è chiara una forte tendenza all’autoritarismo ed alla vanificazione, se non proprio ancora alla completa eliminazione di molte libertà. Quello che ho scritto è, testualmente: “siamo di fronte al processo tipico che porta alle peggiori dittature”, il che è esattamente la verità. La Repubblica di Weimar non era affatto una dittatura, tanto meno una delle peggiori, ma quello che ne è venuto fuori si. Se leggerà con pazienza (spero ma non ci conto molto che lo faccia), i testi che Le ho consigliato, soprattutto Modernità ed Olocausto e L’uomo è antiquato, si renderà conto che non si tratta di profezie, ma di semplice riconoscimento di processi storici molto precisi e che per chi non guardi le cose in modo del tutto superficiale o, semplicemente, non volendo vedere quello che non gli piacerebbe, ci sono delle ottime ragioni per essere quantomeno preoccupati.
Volevo scrivere: “I motivi della chiusura sono fondati sul falso oltre che ingiusti…”
Che strani discorsi! Tante parole per questioni semplici. Mah!.. anche i lupi, da cuccioli, ispirano tenerezza. Tutte le dittature hanno avuto una genesi un’evoluzione e un apice. Una volta che mettono le zanne sbarazzartene non è più così comodo, più facile lo facciano loro
Questo è vero, ma credo ci sia ancora qualcosa di più. Il punto è che la presente umanità sta prendendo uno strano ed inedito cammino. Più si va avanti e più i rapporti sociali ed umani sono superficiali, lontani ed astratti, mediati da complessità organizzative e tecnologiche. In tutto questo, è come se l’umanità stessa si stia diluendo sempre di più in qualcosa d’altro e venga così a sparire ciò che ha potuto frenare in passato le cose peggiori che una società possa esprimere e che ora sembrano libere di manifestarsi. E’ esattamente quello che è successo con il nazismo in Germania o in Sudamerica con dittature come quella di Pino Chet.
La piattaforma Youtube, rappresentante di punta del coviddismo mondiale, ha chiuso definitivamente il canale Byoblu, una delle poche voci, in Italia, della libera informazione.
Nessuna sorpresa, per loro, la sottrazione delle libertà fondamentali è un lavoro, e c’è da dire che lo eseguono con zelo, competenza e successo. Per giunta, come sa chiunque conosce la psicologia dei tossicodipendenti da Potere (la più devastante delle droghe), per costoro calpestare il prossimo è un buon lavoro, un’impesa degna.
Il buon Pennetta lamentava di essere stato oscurato; ha tutta la mia solidarietà, tutta. Se mi dice come posso aiutarlo, se lo posso, è certo che avrà il mio supporto. Byoblu lo ha già, essendo lo scrivente un modestissimo finanziatore mensile del Canale; Vox Tv anche, e altri Canali anticoviddari pure. E’ solo questione di tempo, censureranno tutti, chiuderanno la bocca ad ogni voce dissenziente che abbia peso, salvo che non sia tanto flebile da non recare fastidio alcuno. La più cupa tirannia della Storia stringe le sue maglie; alle squadracce non serve più il manganello, basta una tastiera.
La contesa dialettica tra diverse e persino opposte visioni del mondo poteva magari avere una sua ragione (non sempre, talvolta) fino al 27 Marzo 2020; quando, scaduto il primo (anticostituzionale) DPCM la nullità ora riconsegnata al suo nulla ne emise un secondo (e poi un terzo, e poi un ennesimo). Fu esattamente in quell’occasione che di colpo vidi chiaro; non sarebbe mai finita (lo scrivo da allora), che l’epoca della tirannide era cominciata. Allora scrissi pure, più di una volta, che la nullità non sarebbe durata; ed infatti, incassata la sua paga è scomparsa. Non mi sono sbagliato.
Adesso, il manganello informatico si è abbattuto su Claudio Messora! Grave, gravissimo; ma incomparabilmente più gravi sono i commenti dei coviddari; da quelli da babbeo smidollato e disossato (tipo “.eh… ma lo si sapeva … era nell’aria…”), a quelli da boia sadico, feroce, del lettore tipo dei fogliacci di Regime. Leggete come gongolano! Byoblu ha già il mio supporto mensile, a questo ho aggiunto una donazione una tantum; purtroppo meno di quanto avrei voluto, giacché l’infamia coviddara (oltre alla lesione delle mie libertà naturali) mi ha causato, ANCHE, un significativo danno patrimoniale. Poca cosa, per quanto ingente, in confronto alla totale rovina di molte persone di mia conoscenza; gente per bene gettata sul lastrico e lì lasciata a crepare assieme alle loro famiglie. Per non parlare della sorte ancora peggiore di coloro che hanno subito il massimo della pena, la morte. Per suicidio. Due di questi li conoscevo per nome e cognome. Sono stati giustiziati!!! Ma le anime belle, delicate, bucoliche, alte e signorili, si stracciano le vesti se uno osa chiamare tiranno chi ti priva della libertà, e boia chi condanna a morte le persone per suicidio o per fame.
E qui torniamo al coviddaro tipo, il quale oltre ad essere complice del tiranno, è a tal punto impudente da pretendere che si riconoscano le sue ragioni di servo, traditore e codardo; e fa l’implume vergine oltraggiata, se, appunto, viene definito per quello che è: servo, traditore e codardo.
Giacché è a causa della complicità di costoro che vengono censurati i video del signore che ci permette di scrivere su questo blog (che si chiama Enzo Pennetta); ed è sempre a causa dell’infamia dei collaborazionisti coviddari che canali come Byublu vengono chiusi. Senza la solerte obbedienza di questi ex umani, non vivremmo da 13 mesi in un incubo tetro, sporco, folle.
E la tirannide avanza.
P.s.
La psicopatica creatività dei coviddari ha fatto concepire loro delle unità cinofile che “fiutano” gli asintomatici positivi (Roma); mentre, giusto per fare capire chi e come comanda, il tiranno ha trovato le risorse per schierare contro la popolazione, in occasione della ex Pasqua, ben 70.000 (settantamila) unità di Polizia. E il coviddaro, bulimico, ingoia.
P.s.2
La mia tesi sull’indefinità dell’era coviddara (che i coviddari capi chiamano “permanent-pandemic”) non ha nulla di originale. L’élite gangsteristica globale ne parla e scrive da anni, a chiare lettere, dalla Fondazione Rockefeller, ai vari siti facenti capo a Gates, al Forum di Davos, ecc… Qui allego uno di questi siti (voce dei capi coviddari), che, senza peli sulla tastiera, dice esattamemnte quello che sostengo io.
https://www.bloomberg.com/opinion/articles/2021-03-24/when-will-covid-end-we-must-start-planning-for-a-permanent-pandemic
“La più cupa tirannia della storia stringe le sue maglie” … Fin che lei continuerà a essere libero di sostenerlo mi determino nella convinzione che siano ancora belle larghe. A meno che quelli come lei non siano in fondo funzionali al tiranno, abbaianti e senza morso. Non ce l’ho con lei, che anzi ammiro per cultura e capacità dialettica, c’è l’ho col suo modo di porsi in attacco perenne e denigratorio dell’avversario con vui non concorda.
Gentile Giuseppe, cercherò di analizzare i motivi che la spingono a formulare determinati ragionamenti, non per far opera di convincimento ma solo per cercare di capire; purtroppo non dispongo di quei mezzi culturali che vedo da lei grandemente apprezzati. Capire lei è per me importante per capire il mondo che mi gravita intorno, in realtà una parte di esso, quello che non mi somiglia e, perciò, quello che può insegnarmi qualcosa di nuovo, col quale non ho occasione di intraprendere un confronto secco, così come quello che sembra possibile qui, con lei/voi.
Per quanto mi è parso di capire, lei sostiene che il nostro mondo/civiltà sia blindata entro una corazza culturale (sbaglio se la chiamo democrazia?), che ci tutelerà ancora per un bel pezzo da eventuali cataclismi sociali e spirituali. Viviamo insomma un’età dell’oro (retta da regole di equilibrio e di armonia) sconosciuta ai nostri antenati , dacché per loro l’età dell’Oro era terminata da un pezzo e prima che ne fosse giunta una nuova sarebbe dovuto accadere uno sconvolgimento di portata globale in grado di sacrificare gran parte del precedente mondo, e pertanto tutto ciò che era stato costruito attraverso una graduale evoluzione di pensiero, ingegno e tecnologia. Per loro, per gli antichi (non credo voglia aprire un tavolo di confronto su questo, cioè su quella che era la percezione e sapienza degli antichi), valevano queste norme, non per bigottismo, dato che anche la scienza atea ha finito per rilevare e accettare determinate categorie. La fisica delle particelle, senza distinzione fra quella classica/newtoniana e quantistica, ha formalizzato e spiegato l’aspetto conservativo dell’energia, l’attitudine quindi alla trasformazione della materia piuttosto che alla distruzione (vorrei evitare ovvie citazioni).
Nel continuo processo di trasformazione si alternano così, fasi di invecchiamento/omologazione e fasi di rinascita, con nuove genesi e nuove spinte alla diversificazione (evoluzione). Per darle fede, mi sembra di aver inteso che i segnali che le giungono dall’ ambiente, la portino a ritenere di trovarsi nel bel mezzo di una fase espansiva, rispetto le società umane, l’ecosistema del pianeta e tutto il resto. E dunque l’attuale fase storica rappresenterebbe alle nostre latitudini, ciò che di meglio ha saputo produrre l’umanità e quanto di meglio, da questo sistema, potremmo attenderci in un futuro prossimo. Bene, una posizione del tutto legittima la sua, nulla da dire.
Ma ve n’è una contraria che postula contesti e dinamiche diametralmente opposte. Tutte e due le posizioni sono egualmente degne di essere espresse ed ascoltate. Mi chiedevo però, e vorrei chiedere anche a lei, quali segnali si aspetterebbe, seppure in un futuro remoto e una volta bollate le antiche tradizioni come scarsamente attendibili, come rivelatori di un cambiamento di tendenza? In altre parole, mi chiedevo secondo quali segni potrebbe manifestarsi l’inizio di una fase di invecchiamento di sistema, che è conseguenza inevitabile di qualsivoglia evoluzione. Quali segni dovremmo insomma rilevare (non solo percepire) nelle dinamiche di relazione di gruppo, nella politica dei governi, nella cultura, che fossero tali da fornirci sintomi inequivocabili di un raggiunto livello degenerativo di sistema?; segnali che dovrebbero poi ritrovarsi immutati nell’ambito della fenomenologia biologica, nella formalizzazione del mondo delle particelle come in quello macroscopico dell’universo. Ritengo che dovremmo sforzarci di ragionare intorno a questo problema, cioè sulla ricerca di una chiave di rappresentazione comune che permetta una prospettiva univoca per tutte le tipologie di fenomeni, per poi verificare quali e quanti fattori debbono e possono verosimilmente realizzarsi al fine di rivelare (questo il significato del termine Apocalisse) una precisa fase degenerativa sistemica (invecchiamento naturale); se trovassimo davvero un modo di intenderci, potremmo ambire a un utile trasferimento di conoscenze. Non crede anche lei?
Auspico soltanto, per elasticità dialettica, se fosse possibile evitare – almeno al principio – ridondanze citazionistiche allo scopo di attenerci a un registro colloquiale, chiaro, asciutto e possibilmente rispettoso. Se non chiedo troppo, naturalmente.
Carissimo, la ringrazio per la fiducia accordatami ma devo declinare l’invito. Per inadeguatezza, innanzi tutto, e per mancanza del tempo necessario per fare bene le cose. Se fossi in grado di conoscere tutti i meccanismi sottili che guidano le fila di una società umana in continuo divenire, come lei giustamente afferma, probabilmente non sarei qui in un blog, ma in qualche stanza dei bottoni (e non è detto che sarebbe gratificante). Vale per me e per tutti noi, io penso.
Vede, io vivo in strettissimo contatto con un mondo di persone che dedicano tutto il loro tempo libero a cercare di fare il bene di altre persone che per le più diverse ragioni hanno perso la tramontana: lavoro, lutti, infermità, solitudini, depressioni, tristezze esistenziali. Ebbene a questi buoni samaritani coi quali mi confronto quotidianamente non passa minimamente nel cervello lamentarsi dei massimi sistemi, e continuamente paventare che l’apocalisse ci sommergerà tutti di escrementi: loro hanno un diverso approccio, si rimboccano le maniche e agiscono per migliorare lo stato delle cose lì nell’esatto punto dove respirano e vivono. Questo solo sanno fare. E, mi creda, sarebbe un bell’esercizio per molti imparare l’arte virtuosa del fare subito quel poco che è nelle proprie possibilità per fare stare meglio chi abbiamo accanto. E dopo giornate spese generosamente in questo impegno non restano spazi per lamentazioni, ché il bene che si è fatto torna tutto indietro con gli interessi. Questa società umana che ho sognato e scoperto mi fa scoprire ogni minuto quanto sia indegna la continua lamentazione e ad essere ottimista per forza di cose. Così oso sperare, a partire da me, che ogni domani che ci aspetta fin che siamo in vita possa essere anche solo di poco migliore dell’oggi.
Questo è quanto e non avrò più nulla da aggiungere.
Gentile Giuseppe, la Sua posizione è bene espressa e su questo, neanch’io ho nulla da aggiungere. Mi chiedo, però, allora che cosa La spinge veramente ad intervenire in un blog in cui si sta cercando di comprendere quello che sta accadendo e di reagire a qualcosa che sta avvenendo e che almeno coloro che partecipano a questa discussione ritengono molto grave. Rimboccarsi le maniche e cercare di aiutare gli altri sono ottimi modi di reagire (pur nella consapevolezza che per potere fare veramente il bene occorre conoscere quale sia e non è una cosa da poco). Ma allora, se dopo tutto questo non si ha più motivo o voglia di disquisire su altro, va bene, anzi benissimo, ed il silenzio o le poche parole della taciturnità possono essere un modo molto bello e nobile di esprimere tutto ciò. Non capisco, invece, il senso di una serie di interventi che sono di evidente difesa (garbata e moderata, senza dubbio) dell’attuale sistema. Se, in definitiva, il Suo è l’atteggiamento di chi fa e non ha molto da discutere, allora non capisco perché insistere ad interrogare noi parolai sulle nostre inquietudini. Se invece, Lei ritiene che l’attuale gigantesca struttura che viene chiamata “mondo globalizzato” sia una cosa sostanzialmente o prevalentemente buona e vorrebbe in qualche misura convincere chi non la pensa così delle Sue ragioni, sarebbe auspicabile che le esponesse nel merito e non si trincerasse dietro il rifiuto delle “lamentazioni”, perché, a dire il vero, in questo blog non ne ho viste molte, ma ho visto soprattutto discussioni e tentativi di comprendere.
Altrimenti, il Suo ripetuto riferimento a ciò che fanno coloro che non si lamentano in una discussione, rischia di assomigliare ad un artificio retorico, senza dubbio più gentile e garbato, ma, nella sostanza non molto diverso dal ben noto “qui non si fa politica, si lavora!”.
Premesse sovrapponibili alle mie, sillaba su sillaba. Io vivo ogni giorno a contatto con la sofferenza più cupa in un ‘esperienza quotidiana che ho imparato a considerare mistica per la sua durezza. Ed ha ragione da vendere quando dice che il pessimismo è un privilegio che il cristiano non si può davvero permettere. Notevole anche quel passaggio in cui afferma che non dobbiamo delegare terzi all’aiuto del prossimo che già nel termine significa, colui che ci è ‘più vicino’. E’ il Vangelo che ci porta conferma di queste sue intuizioni, e nel dire questo faccio uno sforzo non da poco, perché il linguaggio devozionale non è quello che mi torna più familiare. Tuttavia, nell’incontro quotidiano col Supremo/ il Sofferente, non mi è possibile ignorare che la sofferenza palpabile sia al contempo linguaggio rivelatore di una condizione transitoria, una conseguenza diretta dell’eterno rapporto fra luce ed ombra e prenderne atto altro non vuol dire altro che farla nostra, capirla e assumere una posizione. Ma ognuno di noi ha delle qualità: alcuni si fanno carico, volenti o nolenti, della loro condizione e ci aiutano a vivere, oltre che a capire, e a compire un’azione; altri hanno ricevuto in grazia la forza per sopportare e per tentare, a loro volta, di raggiungere i primi attraverso l’unica via possibile, quella del farsi sacri per scelta. E’ nel compiere o meno il nostro esercizio di libero arbitrio che ci collochiamo nel cosmo, che prendiamo parte al gioco di luci e ombre rivelatore.
Peccato per la sua volontà finale e per la classificazione che mi offre rispetto alla futilità di un ambiente come questo. Le idee tuttavia viaggiano su qualunque supporto gli si offra e sovente – dovrà riconoscerlo – non transitano laddove ci aspettiamo. Questo le preserva da eventuali rischi, perché le idee fanno sempre paura e chi ha paura utilizza spesso e suo malgrado la violenza per sopprimerle. Chi sopprimerebbe infatti delle stupide chiacchiere da parolai nullafacenti e tediosi filosofeggiatori della domenica mattina? Se mai dovesse saltar fuori qualche idea su questo stupido supporto digitale, non sapremmo mai se quell’idea sia buona o cattiva, ma potremmo star sicuri che stia comodamente adagiata in una botte di ferro in attesa di compiere il suo millenario percorso ed essere, chissà, forse alla fine riconosciuta, in mezzo a tante altre, più o meno buone, più o meno dotte.
Ciao cortese Anonimo. A me la retorica sta benissimo. Aiuta. Quindi la adotto per il finale del mio pistolotto che sarebbe stato più carino in questa forma: ‘più o meno buone, più o meno dotte, più o meno retoriche’ .
Di buon grado accetto le garbate analisi di Fabio e Anonimo.
Covavo, invero, già un sopito bisogno di autosilenziarmi, che gentilmente loro hanno portato alla fine alla luce suggerendomi il fuori luogo delle mie rimostranze.
Grazie per l’attenzione e il tempo riservatimi, spero comunque che le loro e le mie parole insieme abbiano pur lasciato una qualche traccia di positività e bene in tutti noi che le abbiamo scritte e in coloro che abbiano avuto la bontà di leggerle. Buona vita.
No Giuseppe, nient’affatto. Io ho fatto solo delle domande e nessun suggerimento al seguito. Se non ha trovato stimoli nelle mie parole me ne rammarico, quello era il mio intento. Confido negli altri , dal gentile Anonimo al ribollente Francesco, ma anche Paolo e non ultimo il garbato rag. Diabolik. Quali allora i segni tangibili di un mondo avviato termodinamicamente verso la degradazione ? E non vuol essere un richiamo ecologico, il mio, ma più precisamente una chiara valutazione di ‘sintomi’ correlati, secondo un approccio al problema essenzialmente multi-prospettico: economico, sociale, teologico, filosofico e scientifico.
“Confido negli altri, dal gentile Anonimo al ribollente Francesco, ma anche Paolo e non ultimo il garbato rag. Diabolik”.
Grazie, Sig. Fabio, lei mi rende due volte giustizia; la prima volta, perché, per un capriccio di natura, produco calore di mio, non soffro temperature polari, sto quasi tutto l’anno con le maniche corte, e non posseggo un cappotto. Fin qui (per quanto vera) la parte leggera. La seconda parte, almeno nelle parole di Giovanni, leggera non lo è affatto:
“Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh fossi tu pur freddo o fervente!
Così, perché sei tiepido, e non sei né freddo né fervente, io ti vomiterò dalla mia bocca”.
Non so, magari Giovanni esagera un po’.
Mi si scusi in anticipo la lunghezza.
Ho scritto: “La più cupa tirannia della storia stringe le sue maglie”.
Io non produco enunciati della cui verità non so farmi carico; qualora dovesse capitarmi e qualora qualcuno fosse davvero in grado di dimostrarmi che mi sono sbagliato, per me sarebbe occasione di gioia, e di grande riconoscenza verso chi mi ha corretto. Purtroppo, di rado ho questo piacere, e certamente non ce l’ho nel caso di questa mia affermazione: “La più cupa tirannia della storia stringe le sue maglie”. La verità di questa affermazione è inconfutabile per tutti coloro che hanno una conoscenza media del vocabolario italiano, e una pari capacità di inferenza. Chi non dispone di una delle due, o di entrambe, in condizioni normali, non avrebbe diritto a una interlocuzione (presunta) fra pari. In generale ed in particolare, tra pari sono leciti ed anzi proficui il dissenso, la contesa dialettica, persino lo scontro argomentativo aspro. Questo tra pari. Tra dispari, quando sono evidenti tra gli interlocutori abissali lacune nella sfera delle conoscenze, addirittura inferiori alla manifesta balbuzie nella sfera della connessione logica, non c’è etichetta e bon ton che tengano. Chi non sa e non comprende non può pretendere di insegnare a chi sa e comprende. Questo è inconfutabile, negarlo vorrebbe dire radere al suolo l’intera Storia del pensiero umano. Vorrebbe dire scendere persino al di sotto delle regole di comunicazione che reggono le relazioni tra scimpanzè. Ed è ciò che oggi accade, frequentemente, sui cosiddetti social; ma queste sono le regole ed anche il prezzo da pagare ai vantaggi che offre una possibilità di comunicazione aperta, presso la quale, talvolta, si possono fare incontri di qualità; come a me è accaduto in questo blog. Il prezzo da pagare, appunto e tuttavia, è che, immancabilmente, qualche parassita si attacca a ciò che scrivi; e più lo ignori, e più questi sì stizzisce. Ma questo, appunto, è un prezzo da pagare, e se c’è da pagare, si paga senza lamentarsi.
Tornando all’argomento precedente, semmai, la storica domanda è certamente questa: “…e chi decide chi sa o non sa, chi comprende o non comprende?” In effetti, è una domanda antica, ricorrente tanto da essere classica; è una domanda dell’armamentario sofista, tipica di chi, appunto, non sa e non comprende, e però parla lo stesso. Ad ogni modo, a questa domanda ha risposto, definitivamente, uno dei miei Maestri, Platone, i cui libri non sono da reperire sul mercato nero, ma sono di libera vendita. Pertanto, non gli toglierò la parola.
Ed ora veniamo a questa frase in argomento (“La più cupa tirannia della storia stringe le sue maglie”). Ci torno, perché mi sono accorto che persino persone di media e magari discreta intelligenza e cultura, pare che non colgano l’intera rete relazionare del presente quadro; e, soprattutto, difettino nella dimensione della profondità dell’analisi. Generalmente, l’obiezione, che qui riporto con parole mie, è la seguente: “… la prova che ti sbagli te la dai da solo; giacché se quello che sostieni fosse vero, una cosa del genere non potresti neppure sussurrarla. Il fatto che puoi parlarne e scriverne è prova provata che ti sbagli.”.
Naturalmente, l’obiezione è fallace sotto molteplici aspetti, ed è tipica conseguenza non solo di una scarsa capacità inferenziale, ma anche di una grave pigrizia lessicale. Le due carenze, messe assieme, portano a quella serie di paralogismi che costituisce il pensiero del pensatore superficiale, caotico, luogocomunista, banale, sonnambulo. Costui crede che pensare equivalga ad avere in testa dei pensieri, e che siccome sono i SUOI pensieri, allora hanno già solo per questo un’autorità intrinseca, la cui “dignità” va rispettata. Ovviamente, il pensatore casuale e luogocomunista sbaglia, giacché pensare non vuol dire affatto essere sommersi da interminabile chiacchiericcio mentale; anzi, l’esatto contrario! Il presupposto per il corretto pensare è la capacità di ridurre la mente al silenzio. Quanti sono capaci di farlo? Sono graditissime risposte. Per mio conto, probabilmente, non più di una persona su 10.000, se non 100.000, è capace di volontario silenzio mentale. In realtà, non ho una risposta certa a questa questione, ma è certissimo che coloro che hanno seguito un addestramento specifico al controllo del caotico flusso mentale (PROPEDEITICO AL CORRETTO PENSARE) sono una esigua minoranza. Fino al Medioevo questo addestramento era preliminare all’accesso alla formazione umanistica superiore; oggi, scommetto che pochi hanno persino idea di che sto parlando. E comunque, solo con una ferrea disciplina (che nessuna scuola oggi insegna) si ha la possibilità di intraprendere, con qualche successo, la via della conoscenza; quale che ne sia l’ambito specifico. Diversamente, si è soltanto un automa, una macchinetta biologica parlante, produttrice di luoghi comuni. Non è detto, tuttavia, che talvolta certi luoghi comuni non possano essere veri.
Diamo prima di tutto una definizione di tirannia, una definizione che deve essere per forza condivisa, giacché è di proposito un copia e incolla da fonte pubblica:
“…Esercizio dispotico dell’autorità, che comprime la libertà e la personalità degli individui…”
(In realtà è una definizione circolare, e dunque molto poco definente, ma facciamo finta che non lo abbia detto).
Dalla definizione consegue che scopo ultimo ed essenziale del tiranno è la sottrazione di libertà naturali, e solo secondariamente culturali (come quelle costituzionali). Non c’è tirannia, cosa ovvia, se non c’è servitù. Ne consegue ancora che il massimo successo del tiranno, l’obiettivo finale, è la servitù volontaria. (Mi permetto di segnalare, su questo specifico punto, le importanti riflessioni di Étienne de La Boétie, Max Stirner, Félicité Robert de Lamennais, oltre alla mia amatissima Simone Weil, ancora nella fase anarchica ed eterodossamente marxiana).
Ai tempi di La Boétie (cinque secoli fa) il raggiungimento della condizione di servitù volontaria (e dunque la tirannide perfetta), era impensabile su larga scala; era una specie di terminus ad quem teorico, contro-utopico; giacché il tiranno non disponeva di mezzi tali da poter controllare oltre ai corpi dei sudditi, anche le loro menti. Ed anzi, l’impiego di risorse, per raggiungere l’obiettivo limitato dell’obbedienza forzata, era tale da risultare alla fine, nel lungo termine, fallimentare. Da lì, i moti di popolo, il malcontento, le rivoluzioni. Ma La Boétie vide giusto, su questo punto si spjnse persino oltre l’analisi machiavelliana. La tirannide perfetta non avrebbe mai potuto realizzarsi in assenza delle condizioni che la possono rendere possibile. Al tiranno vero, non al dittatore da operetta da staterello da operetta, interessa la massimizzazione del risultato col minimo di spesa, non ha interesse alcuno a piazzare un gendarme per ogni dissenziente. Egli lavora sui grandi numeri, sulla massa critica del consenso volontario.
Ed ora concludo. Oggi il controllo delle menti, su larga scala, non solo è possibile, ma è anche realtà conclamata. La presenza della mutazione antropologica coviddara lo prova, non al coviddaro, ovviamente, che è la materializzazione del servo volontario di La Boétie.
E’ per tale ragione che discutere con costoro non è soltanto vano, ma è anche segno, purtroppo, di mancanza di comprensione delle conseguenze della realizzazione della contro-utopia delaboètiana. Costoro sono senza speranza.
Concludendo: il tiranno ci ha provato sempre, ma con risultati parziali e temporanei. Mancanza di mezzi. Oggi possiede tutti i mezzi: scopo raggiunto. Tesi dimostrata, fine del discorso.
Due parole su un tema recentemente sollevato. In sintesi: se sia possibile essere caritatevoli, extra Caritatem. La risposta sta già, lapalissiana, nell’assurdità della questione stessa. Al di fuori della Fonte primigenia ed unica della Carità ed un preciso e riconosciuto ricollegamento con Essa, con ogni evidenza, nessuna vera Carità è possibile. Ne è ovviamente possibile la sua contraffazione farisaica, che oggi trova sostanza nei buonai e nelle consorterie di tante associazioni di “volontariato”, che pretendono di amare il prossimo nel nome del LORO PROPRIO amore.
La vera Carità si fa nel Nome di Dio, e per Suo conto, scomparendo nell’opera prestata, e nel più completo anonimato. A questo proposito, mi si perdoni ancora se mi permetto di dare un suggerimento. Aiuta molto la conoscenza di una preziosissima opera di Vladimir Sergeevic Solov’ëv, “I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo”. Non so come abbia fatto, giusto con 122 anni di anticipo, il buon Vladimir Sergeevic, a dare una perfetta descrizione del caritatismo moderno, del “benefattore” moderno, e della sua schiera di marionette sul campo. Ed infatti, c’è tanta carità oggi, che i benefattori continuano ad ingrassare fino a scoppiare, mentre, in mezzo ad un mare di abbondanza, gli ultimi continuano dimagrire fino a scomparire nelle loro piaghe. Mentre i “volontari” distribuisco loro le briciole dei loro padroni.
La ringrazio della lunghissima tiritera fatta di grandissimi epici passaggi e, immodestamente, immagino anche a me rivolta. Mi farà bene meditarci su, in quanto tra il tanto stile “fiumi di parole” (cit. non dotta da un titolo dei Jalisse vincitori di un Sanremo) su qualcosa ci ha azzeccato (quando si spara nel mucchio…). Non certo sui volontari che conosco io, che agiscono in nome dell’uomo (da quelli che agiscono in nome di Dio, che lei decanta, io invece rifuggo come la peste), nell’esatto nascondimento che lei auspica.
Permetta anche una battutaccia: nel sentirla decantare come un redivivo “rambo de noantri” le sue manichette corte invernali, io che ho sempre freddo per microcircolo infranto, l’ho invidiata; e mi sono domandato se alla fine non sia vero che il riscaldamento globale abbia un’origine antropica. La prenda per quel che vale, e sfugga il tiranno incombente mettendo a frutto da uomo mentalmente libero tutti i suoi innumerevoli talenti.
Wow! Tanti auguri a tutti! Sono un po’ confuso dai rimandi continui, dalla fiumana di contenuti e utili consigli letterari, ma in fondo sinceramente gratificato per la partecipazione a un colloquio a cui tengo molto.
Ho notato che nell’uovo c’era la sorpresa: il Vecchio, caro Zio a cui tutti siamo affezionati per debito di accoglienza, ha fatto capolino da dietro le quinte. Mi si perdoni allora se, riporto qui davanti, proprio sul tavolo imbandito per il giorno della Festa, il suo apprezzatissimo vino d’annata. Di fatto è certamente vero che non è con quello che sfameremo i nostri avidi appetiti, ed è pur vero che i piatti di portata (cioè le domande e le questioni più o meno ‘gentilmente’ esposte) offerti dagli invitati colano di grasso e di profumi , al punto tale da portare un’ imboscata bella e buona alla tenuta delle nostre fragili coronarie (dati i continui infervoramenti), tuttavia ‘sto vinello prelibato io ce lo piazzerei come aperitivo, dato che non so se dopo l’abbuffata, il convivio stesso sopravanzerà la tenuta dei convitati.
E beviamocelo, allora, questo benedetto aperitivo
Pennetta E: I mezzi non sono messi a disposizione dall’informazione ma sono certamente in mano ad altri e come nel caso YouTube sono in mano all’avversario.
Cionondimeno si possono utilizzare così come nella guerriglia si usano le strade e il territorio in mano al nemico e la cosa è così efficace che l’avversario ti chiude i canali e fa di tutto per non farti parlare. E’ un confronto asimmetrico ma non impossibile, se poi gli interessati non si daranno da fare non dipende da noi, di sicuro se non ci proviamo non riusciremo.
Considero questa una precisa risposta al mio dubbio (retorico), che considera i ‘mezzi’ messici a disposizione dall’informazione (ma io parlerei di tecnologia), del tutto inutili, ed anzi funzionali alla strategia di (eventuale) occultamento, alla stregua di vere e proprie trappole. Ma è di comunicazione che vorrei trattare, non di informazione che è, per il vero, il carico che ci accingiamo a trasportare sui nostri veicoli scalcinati. Ma il campo di battaglia (è di battaglia che parla il Professore) non è rappresentato dalle strade e dai ponti minati messici a disposizione, bensì dell’attenzione che riusciremo ad attrarre e alla quale sono destinati i nostri carretti. Sul piano dell’economia dell’attenzione, la capacità di fuoco (notevole) del buon Pennetta, mi sembra un tantino esposta, per non dire inutile, quindi destinata alla fauci della contraerea. E così mi ricollego a bomba sulle implicazioni venute a galla dal confronto Francesco-Giuseppe, ovvero : se il tiranno c’è, perché non lo vediamo? E se non lo vediamo perché continuiamo a sparare laddove dovrebbe trovarsi?
E qui torna anche il sapiente quesito di Francesco: la differenza fra il chiacchiericcio e il silenzio, ovvero, tutto ciò che sta nel mezzo fra la materia cangiante e dissipativa, e lo Spirito (muto e serafico), fine ultimo di ogni anelito di libertà. Per pensare, dunque, non basta aver in testa i pensieri. Bene ha fatto a ricordarlo il cortese e vulcanico Francesco e bene ha fatto a dire che non si può stare nel mezzo, per evitare di esser vomitati (Se poi l’ha detto prima, anche Giovanni, non fa differenza).
In quanto alle prime mie chiose, ritengo attinente la risposta, davvero un po’ troppo esuberante, di Francesco che è la seguente: il segno principe del degrado è dato dalla tirannide.
Dall’altro capo, e assai pertinentemente, il buon Giuseppe dice: io questo tiranno non lo vedo. Ed in effetti, come negarlo? è in buona compagnia. Basti questo per non dargli del guercio, o per minimizzare questa corretta percezione, che non è una volontà vigliacca di tapparsi gli occhi, ma una semplice, motivata e registrata constatazione di fondo. Il tiranno se c’è, si nasconde bene e le sue categorie, gentile Francesco debbono allora affrontare un’ ulteriore distillazione. Credo di soddisfare appieno la sua inflessibile logica se come elemento di prova, rispetto all’invisibilità del tiranno, porto ad esempio banali estratti da testi canonici che in sintesi ammoniscono il sapiente dal prestar fede alla capacità mimetizzante del maligno, ovvio ispiratore di quel ruolo prevaricatore di governante da tutti, indifferentemente, disprezzato. Insomma il tiranno non può esser visto nelle sue vere vesti, se così fosse, che imbecille sarebbe mai questo vicario mefistofelico?
Dunque le categorie finora utilizzate per distinguerlo, sono del tutto inutili, in quanto il risultato di questo camuffamento (per ora ipotetico) ci rivela inconfutabilmente che l’eventuale fine sarebbe stato conseguito. Inutile eruttare fiumi di parole, di cui faccio golosa incetta, d’accordo, ma non scalfiscono di una virgola l’effetto finale, come il buon Giuseppe ci fa notare, non con le parole, ma con la sua sola presenza da utilissimo scettico. Per concludere, allora, con un monito che valga tanto per lo Zio accogliente che per i suoi ospiti, direi che altre strade vanno utilizzate e scavate ex-novo di sana pianta (stile Vietcong) per portare il carico alla meta e altre categorie vanno faticosamente circostanziate affinché il tiranno possa esser più agevolmente riconosciuto. Perché se per cacciarlo fuori dal suo buco, occorresse essenzialmente una monumentale preparazione, una spregiudicata erudizione ed esclusiva formazione accademica, tutta grassa alimentazione per pochi, allora può, caro Francesco, e potremmo tutti star più che sicuri, che costui (sempre che esista eh Giuseppe…), il tiranno, stia giocando assai bene le sue carte.
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Questo tiranno che sta arrivando dove sta? Oso affermare che nella peggiore delle ipotesi sta nel futuro. Nel potere forte dell’immaginazione che si nutre del nostro passato. È dunque un mostro che non esiste nel presente, frutto della nostra paura che travalica il momento che più conta, quello che viviamo. Se però impariamo che il passato è finito adesso che viviamo in diretta e che il futuro ha anch’esso il forte limite temporale, in quanto se viviamo in diretta esso non esiste, allora possiamo davvero liberarci. Dalle paure e dalle attese di apocalissi che mandano in cancrena l’attimo del nostro respiro che conta, quello di questo istante, aria nei polmoni, da assaporare in pienezza.
Il potere, sociale, politico ed economico dipende dalla natura di coloro che di volta in volta gli sono soggetti.
Nel medioevo, poiché i rapporti fra gli uomini e la percezione che essi avevano del mondo era ancora concreta, il Potere temporale non poteva che essere incarnato da una persona umana del pari concreta (dall’ Imperatore:lex animata in terris, secondo la dottrina giuridica medioevale o, in ambito più ristretto, dal re). Essi potevano, pertanto, essere uniti da legami sufficientemente profondi da rappresentare (nel senso etimologico della parola) principi autenticamente sovraindividuali, che potevano, dunque, comprendere armonicamente le differenze individuali, permettendo (almeno in teoria e senza tenere conto delle cattive disposizioni umane) una vita effettivamente comunitaria e plurale.
A mano a mano che il carattere separativo degli esseri umani si è irrigidito, i legami e la stessa autopercezione degli uomini sono diventati cose sempre più astratte ed i singoli non hanno più potuto riunirsi per integrazione in un Principio sovraordinato, ma, al contrario, per sottrazione, in base a ciò che avevano in comune.
Con l’accrescersi della separazione fra gli uomini ed il sorgere dell’individuo separato, che ha preso il posto dell’individualità, ancora eventualmente aperta alle possibilità che la superavano, queste “realtà comuni” sono diventate sempre più esigue ed i poteri che su esse si basavano, sono diventati delle astrazioni, cioè delle “istituzioni”. E’ ciò a cui si assiste fra la metà del ‘500 ed il secolo successivo. E’ comunemente ammesso che lo “stato”, l’entità astratta di potere che abbiamo imparato a conoscere soprattutto dalla fine del ‘700 in poi, nasce con la Pace di Westfalia, alla fine delle Guerra dei trent’anni. La sua preparazione era stata proprio quello sforzo di confessionalizzazione, cioè la trasformazione dell’exoterismo religioso nella appartenennza ad un gruppo istituzionalizzato, operata dalle varie “confessioni” cristiane.
Col proseguire di questa astrazione separativa, il potere dello stato viene sempre più sostituito da un potere ancora più astratto ed imperecettibile. Qualcuno se ne accorto già negli anni settanta del secolo scorso, quando, dopo il ’68, questa nuova fase era appena iniziata. Pasolini, ad es., sul Corriere della Sera, parlava di “Potere senza volto” e lo collegava esplicitamente alla perdita di identità politica e sociale degli uomini, in un’uniformità che è il diretto portato dell’astrazione.
Sempre nella medesima logica, tale potere amplia le sue dimensioni territoriali e, travalicando i singoli stati, opera a livello globale. In alcuni luoghi (come in Europa occidentale) è ancora relativamente blando, praticando una sorta di dumping politico, anche perché, come ha rilevato FrancescoM, non ha bisogno in genere di usare la violenza per ottenere ciò che vuole. Comunque, bisogna anche ammettere che in tali paesi non arriva a prendere le vite ed i corpi nel modo violento che adotta in altri luoghi. Ciò è dovuto esclusivamente al fatto che (ancora per poco tempo) in tali paesi si trovano i tecnici qualificati che fanno andare le sue macchine. Con la c.d. A.I. e con la delocalizzazione di questi tecnici, questo problema sarà presto risolto.
In altri paesi, mostra invece il suo volto più feroce. Per chi pensa che in Sudamerica, in Africa o in certi luoghi dell’Asia, chi tortura, ammazza, deporta, siano soltanto dei dittatori locali, ho ottimi documenti per disilluderlo. Basterebbe del resto fare l’esempio del Cile, con i tecnici (nazisti, non “neonazisti”, ma proprio quei nazisti lì) a istruire come torturare la gente, farla sparire, ecc. e ad operare anche direttamente sotto immediato coordinamento di emissari di servizi (non importa qui se deviati o no) di paesi occidentali democratici ed il premio Nobel Milton Friedman e molti altri a fare da consulenti economici. Questo potere era dunque esattamente quello stesso che in Italia, nel medesimo periodo, generalmente non torturava, anche se magari faceva altre cose non certo belle, in forma più sporadica e meno palese …
Adesso, si propone (anzi si impone) un distanziamento sociale (attenzione alle parole: “sociale”, non “individuale” o “di sicurezza”) che porterà, in quella che Giorgio Agamben ha definito “una cospirazione oggettiva”, le condizioni per il manifestarsi di un nuovo stadio di questo “potere”.
Ciò ci deve ricordare la rappresentazione di Lucifero che Dante fa, nel suo Inferno, come una specie di gigantesca macchina…
@Fabio PB,
per cominciare, tanti e sinceri auguri di una Santa Pasqua a lei e tutti coloro che riconoscono la dimensione spirituale di questa ricorrenza (mi pare lei sia tra questi). Ai non credenti, poiché tali, posso al massimo augurare tanta salute e una buona digestione.
Mi aiuti a capire, per favore, perché stavolta e per la prima volta non la seguo: lei sostiene (se non l’ho fraintesa) che il trovarci o non trovarci in una condizione di tirannia è una questione congetturale, di fede, di arbitrario punto di vista, impossibile da verificare e determinare; un punto di vista varrebbe esattamente quanto un altro. Ecco, spero di averla fraintesa, giacché se è davvero quello che pensa, è certamente in grave errore; ma non perché, del tutto soggettivamene e gratuitamente, io sia infatuato di un’idea; ma perché (e pensavo di averlo dimostrato), la condizione attuale di tirannia discende, biunivocamente, da tutta una serie di oggettivi dati di fatto, i quali soddisfano, perfettamente, la nozione che di “tirannia” danno tutte le lingue parlate. I fatti soddisfano la definizione, e questa rispecchia i fatti. La definizione l’ho data nel mio ultimo post, adesso vado ad elencare i fatti (cosa che non ho fatto in precedenza, giacché mi apparivano del tutto evidenti).
Siamo o non siamo (da 13 mesi!!!) privati delle nostre libertà naturali, prima ancora che costituzionali? La riposta, salvo che non stia facendo l’esperienza di un multiverso, è un perentorio SI! Art 13 della Costituzione: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria”.
Già questo solo articolo basta e avanza; ma potrei citare gli articoli 16, 17, 19, 32, 34, 41; per non parlare dell’articolo 1, proprio il primo di tutti; minando il diritto al lavoro con dei semplici atti amministrativi (DPCM), sì demolisce l’intera Costituzione. E a proposito dell’uso eversivo e dittatoriale di questo strumento:
“Art. 3 del DL n. 6/20, atto avente valore di legge, dal quale i DPCM traggono legittimazione, non può delegare all’autorità amministrativa (e non legislativa) l’adozione di misure che intacchino libertà fondamentali, sussistendo una chiara riserva di legge, con la conseguenza che risulterebbe anticostituzionale l’intero impianto del DPCM.
La nostra Costituzione prevede solo in caso di Guerra, previa deliberazione delle Camere, la possibilità di conferire poteri straordinari al Governo, e comunque sempre e soltanto su delega del Parlamento, mentre l’unica possibilità di limitare alcuni diritti costituzionali per ragioni di sanità o di incolumità pubblica non può che avvenire per legge (c.d. riserva di legge)”.
Non è sufficientemente chiaro? In quale altro modo una cosa può essere più evidente di così? Qui non si tratta di legittimità nelle scelte soggettive; e neppure di perizia nell’arrampicarsi su per i peri dell’ermeneutica. La conquista della roccaforte della coscienza umana è avvenuta, in almeno in 8/9 casi su 10. I coviddari, attivi o passivi, sono circa l’85% della popolazione. Una tale condizione di servitù volontaria non si era mai verificata prima nella Storia. A tutto ciò, poi si aggiungono le dichiarazioni degli esponenti dei Gruppi di Potere che hanno lanciato e gestiscono l’operazione Covid. Ho allegato numerosi link, inoltre, nei quali l’intento liberticida di costoro è oramai dichiarato in modo tanto esplicito da essere persino provocatorio. Se pensa che mi sbagli, per favore, mi mostrerebbe dove.
P.s.
Gli utenti che ritengo meritevoli di interlocuzione, gentile FabioPB sono quelli con cui dialogo, e certamente non quelli che, con ogni evidenza, ignoro. Perché vi sia dibattito, occorre che entrambe le parti si parlino, non è sufficiente che soltanto una si rivolga all’altra, ed insiste sempre, comunque e ossessivamente, ad indirizzare commenti a qualcuno da cui si viene ignorati. In questi casi, gentile Fabio, mi deve consentire di correggerla; non ci può essere alcun dibattito in corso, dato che una parte ignora l’altra; ma solo compulsione a ripetere da parte di chi viene ignorato. Per essere definitivamente chiaro, inoltre, quando parlo di “coviddari” come specie antropologica, non mi riferisco ad un soggetto specifico; ma ad un campione generico tra i circa 50.000.000 di italiani colpiti da questa deformante disgrazia.
P.S.2
Questa è fresca fresca, e ha un sapore di sporco, di non reale.
Stamane, come senza fallo faccio da 13 mesi, sono uscito in bicicletta. Ad un certo punto, sento il rumore tipico del motore di un elicottero. Mi inoltro su uno dei moli del porticciolo deserto, e vedo, a circa 500 metri di distanza da me (più o meno a un chilometro dalla riva) una barchetta a vela, con su un tizio con una canna da pesca. L’elicottero si assesta sopra di lui, in verticale. A quel punto, vedo uscire dall’imboccatura del porto, sfrecciando, una motovedetta della Capitaneria di Porto, sulle cui scia si accodano tre gommoni. Il nemico della società, del bene e del giusto, l’infame trasgressore anticoviddaro, viene raggiunto dalla motovedetta e in breve circondato dai gommoni. A quel punto, l’elicottero, portata a termine la santa missione civica, vira e si allontana nel turbinio di pale. La scena è qualcosa che sta nel mezzo tra l’antinferno, un pessimo viaggio lisergico, e un tipico rituale manicomiale coviddaro. Il pescatore degenere urla, qualcuno dalla motovedetta lo cazzia con un megafono; alla fine trascinano la barchetta verso il porto.
Non è finita, a poca distanza dall’imboccatura, l’infame nemico de genere umano (che nel frattempo era stato trasferito sulla motovedetta), non prima di avere mandato immaginate dove gli araldi del bene, si getta in acqua e cerca di guadagnare la riva. Insomma, questo è il succo, la cosa non finisce lì, giacché i protettori del genere umano, ovviamente, non mollano, il tizio viene ripescato, si rituffa nuovamente, e via coviddarando.
Ecco, è così che siamo messi. Tutto ciò oggi è normale, la nuova normalità coviddara.
P.S.3
Ho appena letto l’intervento di Anonimo: eccellente, analisi perfetta; preziosa la sua connotazione delle due antropologie; quella medioevale (ossia Tradizionale) e quella moderna. E ora faccio una domanda: chi ha capito ciò di cui parla Anonimo, come può pensare che tra le due visioni del mondo possa esserci un solo punto in comune? E soprattutto, soprattutto: chi ha negato il mondo di chi??? Chi ha portato nelle società lo spirito della divisione, oggi diabolicamente esplicito nel concetto e nella prassi del “distanziamento sociale”? Chi è il nemico dell’uomo, chi è il delinquente? Chi?
Grazie per gli auguri che ricambio sentitamente, Francesco.
Sì, credo di esser stato frainteso. Ho evidentemente espresso male la mia posizione che in realtà non ho ancora specificato. Preparavo il terreno con una sospensione di giudizio temporanea , allo scopo di tenere bene in vista il parere dei diversi interlocutori, Pareri, per l’appunto.
Cercherò di rimediare, ma ho bisogno di tempo.
Ecco, mi sono ‘riletto’. Trovo però che quanto mi addebita, Francesco, non renda giustizia ai miei interventi, alle posizioni che reputavo ben espresse rispetto una battaglia dura contro la pari dignità delle opinioni, una battaglia da me intrapresa tempo fa.
Per rendersene conto basta cliccare sul mio nick. Quanto da me scritto finora, respinge decisamente questa classificazione. Rimane il fatto che tuttavia, nonostante le numerose chiose, sia stato equivocato. Ed allora riprovo a chiarire.
Non penso neppure lontanamente che la tirannia sia una questione di prospettiva, per me non lo è, ma sono arrivato alla convinzione della sua invasività subliminale, attraverso un percorso differente da suo, Francesco.
Nel primo commento ho provato a costruire le condizioni affinché l’oggetto in questione, la tirannia in fase embrionale, possa essere palesata e per farlo mi sono servito dell’antico metodo per il quale è necessario riprendere il filo del discorso partendo, solo momentaneamente, da posizioni equidistanti, una sorta di : ‘ragioniamo per assurdo’ (che a quanto pare non è stato ben inteso).
Ed allora, il problema, non si esaurisce – a mio modesto avviso – nell’ elenco di motivi storici e sociologici, tirati sapientemente in ballo. In parole povere non sto mettendo in dubbio le pregevoli dissertazioni qui lette, ma sto semplicemente valutando il fatto che il tiranno sia invisibile, cioè che si nasconda bene. La questione sulla sua esistenza è bella che risolta in questo ambiente, ok, inutile ridondare, ma all’esterno le cose stanno entro proporzioni molto differenti. La ‘spregevole’ massa tuttavia non è cieca, semplicemente non scorge, non si avvede.
Non penso neppure lontanamente che la tirannia sia una questione di prospettiva, per me non lo è, ma sono arrivato alla convinzione della sua invasività subliminale, attraverso un percorso differente da suo, Francesco.
Nel primo commento ho provato a costruire le condizioni affinché l’oggetto in questione, la tirannia in fase embrionale, possa essere palesata e per farlo mi sono servito dell’antico metodo per il quale è necessario riprendere il filo del discorso partendo, solo momentaneamente, da posizioni equidistanti, una sorta di : ‘ragioniamo per assurdo’ (che a quanto pare non è stato ben inteso).
Ed allora, il problema, non si esaurisce – a mio modesto avviso – nell’ elenco di motivi storici e sociologici, tirati sapientemente in ballo. In parole povere non sto mettendo in dubbio le pregevoli dissertazioni qui lette, ma sto semplicemente valutando il fatto che il tiranno sia invisibile, cioè che si nasconda bene. La questione sulla sua esistenza è bella che risolta in questo ambiente, ok, inutile ridondare, ma all’esterno le cose stanno entro proporzioni molto differenti. La ‘spregevole’ massa tuttavia non è cieca, semplicemente non scorge, non si avvede.
Vi è dunque un’abilità nel nascondersi – e già questa è l’ammissione inequivocabile di una presenza constatata – che deve essere compresa, prima di tutto, e poi condivisa. Non possiamo ignorare, dunque, che molti non lo vedono e non perché essi non hanno mai potuto vedere e mai vedranno. Rifuggo da questo pregiudizio! Non parlo di chi, vilmente si volta dall’altra parte; questi sono pochi, ma alludo a quella moltitudine formata da chi non può capire, pur volendo. Forse la differenza fra me e lei, Francesco, sta solo nella stima quantitativa di questo potenziale bacino di persone che potrebbero recepire. Quando poi scrivo ‘ il tiranno, se c’è, si nasconde bene’ , con quel ‘se c’è’ non riporto le coordinate esatte della mia incertezza, che non esiste al momento, stendo semmai una mano a chi ‘sto dubbio lo mantiene, in un tacito invito alla ricerca di verifiche.
Ora, quanto mi è capitato di leggere, costruisce un entroterra culturale robusto e documentale di gran peso, ma dalla prospettiva della mia formazione, non palesa vere e proprie verifiche. Per chi ha una formazione scientifica il paradigma discriminante posto al principio come :
– la condizione attuale di tirannia discende, biunivocamente, da tutta una serie di oggettivi dati di fatto, i quali soddisfano, perfettamente, la nozione che di “tirannia” danno tutte le lingue parlate.,
non è sufficiente. Non lo è per tanti, non lo sarebbe nemmeno per me che come detto, per giungere alle medesime conclusioni, utilizzo diverse categorie.
Contesto questa frase perché l’ ‘attuale condizione di tirannia’ non può esser dedotta da informazioni manipolabili (questi sarebbero i suoi ‘dati di fatto’, poiché quelli raccontati, a dargli fede come cronista, non sono percepiti – verbo utilizzato correttamente da Anonimo – alla stessa maniera da tutti). E non possono esserlo, in quanto ‘percezioni’. E poco importa l’avallo fornito dai dizionari, perché una volta interiorizzata per educazione scolastica, il principio-trappola di interpretabilità della parola, tutto diventa fumoso, ossia non confrontabile. Il linguaggio da adottare dev’essere allora quello della matematica. La matematica, infatti, non si serve di dizionari per verificare i propri teoremi, ma ci pone davanti dati non interpretabili. Ed è su questi, cioè su elementi non soggetti a differenti significati, che dovremmo cercare di spostare i criteri della nostra modalità di indagine. Il mio vuol essere un invito, sia chiaro, secondo quanto diceva un noto fisico: se una soluzione/cura è buona deve capirla anche tua nonna. Ed allora, come già condiviso con lei in un’altra discussione, è necessario che le ipotesi in campo (se così son percepite dagli interlocutori) si sottomettano a una verifica, cioè ad essi devono corrispondere gli effetti finali prioritariamente confezionati. E’ questa corrispondenza, ragionevolmente parlando, che ci fornisce l’univoca chiave di lettura.
In tema di virus e tirannie, nessuno considera qui il valore degli anticorpi… Quelli che ci difendono dal germe e quelli che ci difendono dalle paure e dai tiranni ai più diversi livelli. La TV, per banale esempio, è spesso un tiranno che ci propina cose che alla lunga logorano. Nel mio cauto ottimismo, in un tempo in cui la malattia vera è quella mentale (di cui non tutti sono consapevoli, purtroppo), sostengo che i nostri pensieri decidono quel che siamo, nel bene e nel male. Una terapia, dunque, non può che partire da una terapia dei pensieri, un’arte difficile che genera anticorpi e attiva la conquista della felicità, come ci suggerisce un grande che stimo: Bertrand Russell. Ci sarà modo di approfondire, io spero. Buona settimana.
Intanto, mentre parliamo di lui, il nostro tiranno si porta avanti con il lavoro ed i discorsi divengono veramente folli. Ecco uno stato avanzamento lavori sui progetti di videosorveglianza (pseudo)”intelligente”:
https://www.youtube.com/watch?v=Qn4nZlBLdLg915
@Fabio PB
A.s.
(Per favore, mi spiega come fa a rendere il grassetto? Grazie.)
Mi pare, se sbaglio mi corregga, che il nocciolo duro della sua tesi sia rappresentato dai concetti da lei espressi nel seguente passo:
“Contesto questa frase perché l’ ‘attuale condizione di tirannia’ non può esser dedotta da informazioni manipolabili (questi sarebbero i suoi ‘dati di fatto’, poiché quelli raccontati, a dargli fede come cronista, non sono percepiti – verbo utilizzato correttamente da Anonimo – alla stessa maniera da tutti). E non possono esserlo, in quanto ‘percezioni’. E poco importa l’avallo fornito dai dizionari, perché una volta interiorizzata per educazione scolastica, il principio-trappola di interpretabilità della parola, tutto diventa fumoso, ossia non confrontabile. Il linguaggio da adottare dev’essere allora quello della matematica. La matematica, infatti, non si serve di dizionari per verificare i propri teoremi, ma ci pone davanti dati non interpretabili”.
Ebbene, non mi pare che lei si espresso con formule matematiche, o teoremi, i soli, a suo dire che garantirebbero conoscenza certa, e “non interpretabile”. Lei non ha manifestato il suo pensiero con numeri o simboli matematici; lei è ricorso al dizionario per esprimersi, e connettivi logici per articolare il suo pensiero. Gli enunciati verbali, quale che siano, poi, non sono oggetto di percezione, come lei scrive, non appartengono al dominio del sensibile, ma a quello del conoscibile. Per cui, proprio non la seguo.
Inoltre, io non so cosa sia il “principio-trappola” dell’interpretabilità della parola, se tale “principio” (qualunque cosa sia) esistesse, a essere fagocitate dalla loro (del tutto presunta) fumosità sarebbe le stesse parole con le quali lei ha enunciato questo (a me sconosciuto) principio. Se ciò che lei asserisce come vero (questo tale “principio-trappola di interpretabilità della parola), allora anche le sue parole dovrebbero di necessità obbedire a tale principio, ed essere “percepite” (seguito a non capire come una parola possa essere “percepita”) da ciascuno a modo suo; e relegando la sua conoscenza solo all’universo mentale privato di Fabio PB.
Inoltre, i soli “dati” di cui tratta la matematica sono i numeri, pura, mera, quantità; non sono interpretabili, per la buona ragione che, pur se veri, non hanno significato alcuno. La matematica non si occupa di significati, per essa non hanno senso alcuno; ma di rapporti coerenti tra quantità prive di significato. La semantica, infatti eccede completamente il dominio della matematica. Il luogo della semantica sono i linguaggi naturali, ordinati nei dizionari.
Inoltre, in un enunciato ben formato da una parlante qualificato non ci sono margini interpretativi tali da nuocere alla comunicazione; se tali margini persistessero, i parlanti ne potrebbero venire a capo senza troppe difficoltà, purché entrambi a conoscenza delle regole di inferenza logica (*). Se gli umani non si fossero capiti si sarebbero estinti dopo la prima generazione. L’ordine dei significati pertiene l’ordine delle parole, le quali sono sistematizzate nei dizionari. Senza un linguaggio codificato e semantico, è impossibile comunicare; persino gli animali non umani ne hanno uno; e, nel modo più evidente (dunque, senza necessità di interpretazione), comunicano senza neppure avere la più pallida idea di cosa sia la matematica.
I teoremi di matematica o di logica formale, per quanto eccelsi nel loro ambito, LETTERALMENTE, non significano nulla.
Per cui, concludendo, io non ho la più pallida idea di come si possa parlare di filosofia della Storia, antropologia, geopolitica, cratesiologia (di queste cose noi qui stiamo parlando), adottando, come lei scrive, il linguaggio matematico.
Tralasciamo temi complessi, enunciati complessi, mi faccia (per favore) un esempio di come si possa sfuggire a ciò che lei chiama “il principio-trappola della interpretabilità della parola” (che farebbe diventare “tutto fumoso”) nel caso di un enunciato semplicissimo, questo: “Mi piace la cioccolata”.
La stessa cosa chiedo a chiunque abbia capito cosa intende l’eccellente Fabio PB.
P.s.*
Non finisce di stupirmi la circostanza per cui nessuno si sogna di inventarsi ragioniere, chimico, geometra, pianista, architetto; mentre, senza eccezione, anche l’ultimo avanzo di bocciofila, si mette sullo stesso piano argomentativo con chi la disciplina del ragionamento, ossia la logica, l’ha studiata per anni. Tutti si sentono autorizzati a dire la loro su tutto, senza neppure sospettare che per dire la propria in modi sensato, si deve per forza avere studiato (studiato, studiato), la disciplina che permette di correlare le cose in modo sensato; la logica. Semplicemente folle; se uno si spaccia per ingegnere, viene arrestato; mentre chiunque si spaccia per ragionatore viene tutelato. Pazzesco!!!
Le tecniche del grassetto e del corsivo sono queste:
corsivo = tasto ‘angolo acuto’ (non so come si chiami) col vertice a sn, seguìto da em e poi di nuovo l’angolo acuto con vertice a destra, per chiudere. Componga la frase,
alla fine del periodo angolo acuto col vertice a sn, poi slash, poi em, e poi ancora angolo acuto con vertice a destra per chiudere ancora. Tutto quello che sta in mezzo diventa corsivo.
Per il grassetto, come sopra però al posto di em scriva strong. Provi un po’ , magari è un po’ meno maldestro di me.
Gran bella domanda, la sua, Francesco. Sarei onorato se la riportasse su questo post.
https://arteeordineanarchico.blogspot.com/2021/02/sullinterpretabilita-scientifica-prima.html
Dedicherò del tempo a una risposta . Per quanto riguarda questo post, invece, capisco che posso aver argomentato in misura poco chiara rispetto alle conclusioni cui volevo arrivare, che – a scanso d’equivoci – sono le seguenti
TANTO PER CHIARIRE
Si, non ne dubito @Anonimo. Ne avrei da raccontare anch’io… Ma che dire, nella percezione comune le cose che avvengono, da alcuni giustamente recepite come sintomi, sono relazionate alle condizioni di vita dei periodi bellici (pre e post), a quelle dei secoli precedenti, per non parlare dei millenni. L’andamento del tempo è percepito come lineare, continuo e regolare e lo stesso vale per il progresso, la durata della vita, il benessere e la salute individuale: sempre in avanti. E’ da decenni che ci somministrano queste false nozioni. Chi non giurerebbe che si vive sempre meglio rispetto al passato, con meno fame, malattie e soprattutto per più tempo (il famoso aumento della vita media: su scala universale è falso come l’inferno!) ? Per forza, anche in catene, molti di noi continuerebbero a essere ottimisti!
Qualunque ricostruzione, pure la sua Anonimo (quella descritta pochi commenti più su), potrebbe essere semplicisticamente sottoposta a confronto col passato, e potrebbe facilmente indurre a minimizzare il peso di taluni segnali rispetto a qualcosa che proprio non va, in quello che sta accadendo sotto i nostri occhi. Occorrerebbe allora introdurre nuove categorie, nuovi scenari, per liberarci dal peso di una formazione cognitiva indotta e alquanto condizionante. Quel che mi sembra non esser stato capito è che il tiranno abbia già lavorato parecchio, e perfino bene, bisogna ammettere, affinché le menti fossero preparate a ricevere in un certo modo determinati stimoli (postfazione del testo ‘sacro’ dello Zio Enzo: Il mondo nuovo/Ritorno al mondo nuovo, di Aldous Huxley). Se Dirac, o Niels Bhor, valutavano certi concetti probababilistici e procedure di calcolo (calcolo combinatorio, l’andamento ondulatorio dell’energia luminosa) come strutture non intuitive per la mente umana; se lo stesso Heisenberg (in termini più chiari ce ne parla lo scrittore Simon Singh ne Il teorema di Fermat,) riteneva che la capacità cognitiva dell’ ‘animale’ uomo fosse strutturata fin dalla nascita per acquisire soltanto un certo tipo di elementi matematici, ( non certo la teoria della relatività), invalidando gran parte della filosofia kantiana, e se ritenevano altresì, che l’aritmetica o la stessa geometria euclidea potessero essere invece acquisiti direttamente dal vissuto e dal bagaglio esperienziale, e immediatamente interiorizzati senza attraversare una fase didattica di formazione, un motivo c’è. E persino un dubbio c’è. Infatti, chissà, come ragionerebbero i più se la formazione scolastica avesse trattato altre discipline e modalità di calcolo, se ci avesse abituato a familiarizzare, così come con le operazioni cardinali, col calcolo probabilistico. Oggi in molti capirebbero il margine di rischio di esser annientati da una patologia come il covid.
Ma, la mente dei più, e parlo di laureati e persone dotate di una preparazione/formazione specialistica, di fronte a una frazione decimale, non capiscono cosa significhi lo 0,0001 % e sostengono con malcelata superbia accademica, e con slogans collaudati e imbecilli, che ‘è sempre meglio non correre alcun rischio quando si parla della propria vita’; oppure non colgono che il margine probabilistico del feto di contrarre determinate malattie è più basso del rischio che comporta per lui, sottoporre la gestante a un particolare test invasivo (ho sentito con le mie orecchie anche questo!), e nemmeno capiscono quanto sia difficile prendere una sola pallina rossa in un cesto che ne contiene altre 9.999 bianche, vuol dire che, con strumenti raffinati e potentissimi, il tiranno ha preparato il campo in anticipo per potersi permettere, oggi, sonni tranquilli.
MI piacerebbe raccontare la storia di quel dottore che non capiva come la percentuale dei tamponi effettuati/ positivi variasse al variare (con mirate tecniche di rilevazione) il dato della quantità dei test. Non capiva cioè che quell’indice tanto importante, fra tamponi eseguiti e positivi rilevati, dipendesse dalla quantità dei test somministrati, quantità, come tutti ben sanno, che si decide arbitrariamente a tavolino, così come si decide arbitrariamente, in barba a qualsiasi norma di rilevazione statistica, il luogo esatto dove condurre le analisi. Per stavolta, però, le mie storielle ve le risparmio. Lo scandalo di quei tali che bidonavano i dati inserendo numeri a casaccio è cronaca recente.
Stiamo toccando un discorso davvero difficile da trattare in questa sede, perciò non sono sicuro che riuscirò ad esprimere tutto quello che avrei da dire, ma ad ogni modo, cercherò di farvi capire come la penso.
Per prima cosa, mi sembra che la questione sollevata sia un po’ ridondante rispetto al tema di partenza: insomma, la situazione descritta da Francesco è chiara ed è difficile contestare che le cose stiano come lui le ha descritte. Che poi la si voglia chiamare “tirannia” sulla base del dizionario o meno rischia di essere una questione terminologica del tutto secondaria ed in ultima analisi inutile, stante che non si potrà comunque negare che si tratta di una grave compressione e limitazione, quando non completa evaporazione, delle libertà individuali che dovrebbero garantirci dai peggiori soprusi. Che poi questa situazione sia sofferta o meno dai singoli dipende, innanzitutto dalle propensioni individuali e poi anche molto dalle situazioni oggettive che sono diverse da persona a persona. A parità di attenzione alle proprie libertà, un conto è la situazione di un pensionato che già non riusciva di suo a muoversi da casa e che magari era già abituato a vivere da solo lontano dai parenti, un conto quella di un commerciante con bambini piccoli che deve lavorare per vivere e mandare i figli a scuola permettendogli una minima socializzazione e contatto con il mondo. Resta il fatto che tutti dovrebbero riconoscere che si tratta di qualcosa di molto grave ed illegittimo ed i raffronti con il doppio decimetro per misurare se si tratta di tirannia, dittatura o autoritarismo possono continuare indefinitamente lasciando più o meno il tempo che trovano.
Questo sul merito.
La questione epistemologica è invece molto più difficile da affrontare e ci riporta ad alcune discussioni già fatte sul termine “interpretazione”. Proviamo a vedere se possiamo concordare su alcune cose:
1) L’essere umano non è onnisciente, cioè non è in grado di conoscere pienamente la Totalità del Reale.
2) Secondo la visione moderna, questa non onniscienza è un fatto sostanzialmente quantitativo e ad una dimensione: non conosco tutto semplicemente perché non ho tutti i dati a disposizione e perché non ho sviluppato o appreso tutti i metodi di calcolo (logico o di altro tipo) necessari per metterli insieme e produrre una conclusione. Se avessi questa capacità, dice Laplace, sarei in grado di conoscere ogni fatto dell’Universo e prevedere financo il futuro, perché tutto sta nell’ apprendere dei dati conoscibili singolarmente allo stesso modo da tutti e metterli opportunamente insieme.
3) Secondo una visione alternativa, la conoscenza umana non è limitata solo in dimensione orizzontale e quantitativamente, ma in una dimensione di profondità. Questo significa che, se il Maestro Gutei alza l’indice, io vi vedrò l’indice alzato, mentre chi abbia raggiunto un diverso stato di Conoscenza vedrà l’Asse che regge l’intero Cosmo nella Manifestazione Informale (Celeste), formale sottile (mondo intermedio) e grossolana (Terrestre). La Realtà è una sola, ma ognuno ne percepisce una porzione diversa, secondo le proprie capacità di comprensione.
4) Secondo questo diverso modo di concepire le cose, la comprensione non è, dunque, soltanto il frutto della acquisizione di un dato (uguale per tutti) e della sua successiva composizione con altri dati secondo determinate regole (potenzialmente uguali per tutti), ma, prima di tutto, comprensione del dato nella sua unità (interna, in sè stesso, ed esterna, con il Mondo) inscindibile che non può essere in alcun modo ridotta alla sua sintassi (regole che gli sono applicabili, che sono solo la conseguenza di quella sua essenza non discorsivamente concepibile).
5) Questa facoltà, che non è discorsiva, è del tutto analoga (anche se ovviamente non identica) alla percezione sensoriale, perché come (ed anzi infinitamente di più di) questa, è diretta. Perciò si parla sovente di “intuizione intellettuale” che propriamente significa “vista intellettuale”.
6) E su di essa quindi che, nell’ordine di idee che descrivo, si fonda ogni comprensione e le stesse regole logiche si basano su principi che non possono essere a loro volta soggetti a dette regole o ricavabili da esse.
7) In questa diversa visione che possiamo dire semantica, in contrapposizione a quella sintattica che riduce tutto a dati semplici e calcolo, non tutti possono vedere le stesse cose (quando si esce dall’ambito più superficiale della c.d. vita ordinaria dei moderni), perché non tutti vivono nella stessa realtà (relativa) potendo essere per ognuno reale solo ciò con cui è in grado somaticamente, psichicamente o mentalmente di interagire.
8) questo spiega perché chi si ponga in una prospettiva come quella descritta, sia in grado di ammettere, come è stato descritto da Francesco in un precedente post, che tradizioni diverse che, formalmente dicono cose opposte (da un punto di vista strettamente logico), possano tutte essere vere simultaneamente.
9) Tutto ciò è purtroppo molto lontano dagli argomenti molto più terra terra che stiamo trattando: tutto quello che si può dire, per collegarlo a quanto ho descritto, è che il significato delle cose, cambia completamente in rapporto alla visione dell’Universo che ognuno riesce ad avere. Anzi, il significato anche linguistico è proprio e soltanto quello, in quanto il senso delle parole, non è che un riflesso del significato che hanno per noi le cose che le parole dovrebbero rappresentarci. Ed è questa evidentemente, la radice della profonda diversità delle opinioni degli uomini che, di fronte agli stessi fatti, hanno reazioni profondamente diverse. Questa “visione dell’Universo” è circoscritta da quello che può definirsi l’orizzonte intellettuale di ciascuno. Non si tratta di qualcosa di definitivo e dato una volta per tutte, anche se per la maggior parte degli uomini esso rimane purtroppo per tutta la vita quello che hanno maturato nei primissimi anni dopo la nascita. E’, comunque, qualcosa che ha a che fare con ciò che si è (attualmente) prima che con ciò che si pensa.
@Francesco M
Una sola precisazione, prima di leggere anche l’intervento dell’Anonimo. Per ‘linguaggio della matematica’ non volevo intendere quello specialistico. In pratica, per ricorrere al metodo matematico è sufficiente affrontare il percorso che fu dei pitagorici (proprio gli allievi della sua scuola), i quali non deducevano nulla (cito ancora l’interessante libro di Simon Singh su questo argomento) . E dunque certo che non ricorrerei alle formule per capire cosa sta succedendo, ma seguirei il metodo matematico della verifica dell’ ipotesi. Per formulare però matematicamente/scientificamente la mia teoria sono costretto a introdurre dati precisi sotto l’aspetto quantitativo. Ebbene, questo non lo si sta facendo. Le quantità che dovrebbero fornirci i dati sono limitate a un frame temporale, invece che a un corso più ampio (andamento della variazione del dato su base mensile ed annuale) E nemmeno si segue l’impostazione ‘matematica’ che prevede la non interpretabilità dei dati, perché se si chiamano ‘infetti’ quelli che in realtà sono sempre stati chiamati ‘portatori sani’, si confonde il termine, che è interpretabile per natura, e si confonde la percezione quantitativa degli stessi infettati, che sono quelli che rispondono, per gravità, a precisi sintomi. E qui andrebbero riportate ancora quantità parametrali per discriminare un sintomo da un altro, un malato da un altro. Sarebbe interessante anche conoscere la quantità di quelli che entrano in ospedale ma non in rianimazione. Siamo d’accordo sul fatto che, in una prima fase non si capiva niente, molti sono morti, ma chi per disservizio e chi per effettiva conclamazione di gravità? Non lo sapremo mai. Inoltre , per quanto concerne i rimedi, non si chiarisce mai quando valutare la loro efficacia perché le previsioni risultano sempre sbagliate. Ma quando le prevsioni si sbagliano, secondo un modo di intendere scientifico/matematico, si dovrebbero cambiare i rimedi. Invece quelli sono sempre gli stessi. Sul piano terminologico è cambiato anche il significato del termine ‘vaccino’, adesso con un vaccino, puoi lo stesso ammalarti e infettare gli altri e sostenere che senza il rimedio le cose sarebbero andate peggio, appare come la peggiore delle rassicurazioni, il linguaggio ancora una volta passa da pseudo-matematico a ciarlatanesco. I medici, al fallire della cura, da che mondo e mondo, si sono sempre tutelati dietro il seguente-paravento:
– Dotto’ ho preso la medicina ma le vesciche sono aumentate.
– Uh, cara signora – le fa l’astuto curante – si immagini cosa sarebbe successo se la medicina non l’avesse presa.
Ecco, se avessimo ricevuto una corretta educazione matematica (prima che scientifica o filosofica), ciarlatani del genere anziché pagarli profumatamente, li avremmo mandati subito al patibolo.
Non so se stavolta ho fatto meno casino. Ogni ulteriore approfondimento cercherò di svilupparlo nel blog di cui ho riportato sopra il link .
Innanzitutto, un doveroso grazie a Fabio PB per la sua pazienza e disponibilità, seguito dai complimenti per la sua perizia in un campo che il destino ha voluto che mi fosse chiuso per sempre. Con questo genere di cose (curiosa la mente!), mi si chiude la mente; comunque non appena (?) acchiapperò mio figlio, gli farò leggere le istruzioni dell’ottimo Fabio, e probabilmente, come si fa coi bambini, lui mi farà capire. Per il momento, renderò il grassetto con una inelegantissima interpunzione tra s.i.l.l.a.b.e..
Tornando a noi, forse adesso ho capito qual è la prospettiva che fa da sfondo alla questione ultimamente trattata, se è così, nessuna delle soluzioni proposte dalla cultura occidentale potrà mai avvicinarsi ad essere appena soddisfacente. Mentre le tre grandi culture orientali, quella soluzione, l’hanno da un pezzo trovata. Ho dato un’occhiata veloce all’articolo proposto da Fabio (magari ci ritorno); l’impressione è che, per ragioni che cercherò di argomentare, si avvita in modo straordinariamente competente, attorno a questioni irrisolvibili, e tali, perché l’estensore non si accorge che le p.r.e.m.e.s.s.e. i.m.p.l.i.c.i.t.e. a tali questioni, rubando un termine recentemente usato proprio da Fabio, sono fumose e, oltre a fumose, logicamente contraddittorie.
Già in passato ho parlato di p.r.e.m.e.s.s.e. i.m.p.l.i.c.i.t.e, col forte sospetto di non essere riuscito a trasmettere il significato e la portata di questa nozione. Eppure tutto il nostro parlare, persino l’approccio non verbale al mondo, sono condizionati, in modo potente da tali premesse.
Qui mi limiterò a indicare due di queste premesse. Entrambe sono di carattere culturale; la seconda è un corollario della prima:
-“Ci illudiamo tutti sul valore della parola, ci illudiamo che il linguaggio sia veramente fluido e spontaneo, e che non faccia altro che “esprimere” semplicemente quello che desideriamo. Quest’illusione deriva dal fatto che i postulati all’interno del flusso apparentemente libero del discorso sono così assoluti, che tanto chi parla tanto chi ascolta se ne trova inconsciamente vincolato, quasi come si trattasse di sottostare ad una legge naturale. I postulati del linguaggio appartengono ad un retroterra di cui chi parla non è consapevole, o lo è in misura molto debole. La forma dei pensieri di un individuo è controllata da leggi inesorabili di cui egli non è consapevole. Tali leggi determinano le sistematizzazioni complesse e impercettibili del suo linguaggio.”-
Questo è Benjamin Lee Whorf , il brano è preso da “Linguaggio, pensiero e realtà”. Quali sono questi postulati all’interno del flusso apparentemente libero del discorso? E più altro quanti sono? Ecco una volta scoperchiata la pentola, e considerate per come meritano la parole di Whorf, ci accorgiamo che questi postulati coincidono con l’intero mondo culturale del parlante, e non solo, ma con la sua specifica ed irripetibile biografia. Anonimo si è avvicinato a questa inoppugnabile verità, con:
“Questa “visione dell’Universo” è circoscritta da quello che può definirsi l’orizzonte intellettuale di ciascuno”
Ma capire che è così non basta, occorre capire p.e.r.c.h.é. è così; e, un passo ancora avanti, perché non può non essere che così. Un ulteriore passo avanti, che proporrò come conclusione dell’argomento, è che non è un cruccio, non è una disgrazia, non è neppure un limite, che sia così.
Il corollario è il seguente, ma per ragioni storiche e geo-culturali specifiche (lo dobbiamo al pensiero greco) esso ha una soverchiante incidenza soprattutto in Occidente. L’occidentale è radicalmente convinto che il mondo è e.s.a.t.t.a.m.e.n.t.e. come lo parla, prima ancora che come lo vede o comunque lo percepisce. Naturalmente, basta appena portare il focus sulla questione che ci si accorge come questa “radicale convinzione” è un’allucinazione, la quale, portata all’estremo, può avere anche conseguenze sulla salute mentale e sociale.
Il mondo muta, anche se non mutasse (cosa impossibile per un milione di ragioni) la nostra percezione di esso muta, ma le parole per descriverlo (ossia il medio per trasformare la percezione in cognizione) restano le stesse.
I dizionari non sbagliano a connotare il verbo “amare” come fanno! Il loro compito è di offrire la massima approssimazione descrittiva media dell’universo culturale, percettivo e cognitivo, del parlante medio di quella cultura e di quel tempo. Ovviamente, questo parlante medio non esiste, ed è un bene (!!!), giacché se esistesse, non potrebbe che essere un clone di innumerevoli altri cloni; e il mondo sarebbe un deserto popolato da dispositivi biologici parlanti. Ne consegue che una certa dissonanza interpretativa non solo è inevitabile, ma soprattutto un bene prezioso da preservare. Cosa mai avrebbe potuto scrivere Shakespeare, se la comunicazione fosse algoritmizzata, come (mi pare) l’estensore dell’articolo proposto da Fabio sembrasse auspicare? Come potrebbe Pessoa aver scritto una sola delle sue meravigliose poesie?
Uhm… l’ora incalza, purtroppo devo chiudere senza concludere, mi si perdoni.
Resta da discutere dei motivi per il quali la percezione/cognizione perfetta, adeguata, vera, ed insuperabile del mondo, non può che essere extra verbale. Queste ragioni sono già implicite in quanto sopra, ed in alcuni miei interventi pregressi.
P.s.
Mi scusi, Fabio, ho visto che ha postato mentre scrivevo, purtroppo devo rimandare un commento al suo scritto.
@Francesco ecco il link per il corsivo.
https://arteeordineanarchico.blogspot.com/2021/04/grassetto-e-corsivo.html
Al posto di ‘testo’ metta le parole che vuole in corsivo,
per ottenere il grassetto al posto di ‘em’ scriva ‘strong’ lasciando inalterate
le altre istruzioni.
Vorrei chiudere questo intervento sinteticamente, cercando di raggruppare i principali pezzi sparsi. So, purtroppo, che molto resta fuori.
1°, innanzitutto e fondamentale, come evidenziato da Leibniz, occorre sempre avere presente la distinzione tra l’ordine dei princìpi e l’ordine fenomenico. Il disaccordo sul primo ordine non può aver luogo, chiarite tutte le premesse. Se persiste, vuol dire che una delle parti o entrambe commettono errori nella sfera della logica. Nessun altro caso è ammesso; partendo dalle stesse premesse, non si può che arrivare alle medesime conclusioni.
Circa il secondo ordine, la questione è che è già del tutto impossibile un chiarimento completo delle premesse esplicite; figuriamoci di quelle implicite. Il massimo cui si può ambire è una specie di “accordo al ribasso”, tale da rendere possibile il funzionamento di una società. Questo non vuol dire, ovviamente, che ciascuno, per il solo fatto di poter parlare, ha diritto di dire la sua pretendendo di essere preso sul serio, né che un’opinione vale l’altra. Ci sono opinioni strampalate, ridicole, grottesche, palesemente false; e ve ne sono fondate, argomentate, verosimili, con tutto ciò che sta in mezzo.
Ora, la domanda, cui si arriva sempre, parrebbe essere: chi lo decide tutto ciò? Sembra una domanda sensata, ma non lo è, giacché la sua legittimità fonda sulla presunzione d’esistenza d’un decisore supremo, del tutto indipendente dai vincoli i.m.p.l.i.c.i.t.i. nella stessa domanda. Tale decisore supremo, su questa Terra non esiste. Questo fu, ad esempio, lo scoglio insuperabile su cui si arenò l’utopia filosofico-politica di Platone; giacché non gli fu possibile dare dimostrazione di quali fossero i criteri oggettivi per cui fosse individuato il saggio che avrebbe dovuto guidare la sua Repubblica.
E’ così in questo mondo, ma solo se il decisore lo si cerca nel “posto” sbagliato. Se lo si cerca “fuori”. E qui, saltando alcuni importanti passaggi, arriviamo al nocciolo della questione: come facciamo ad essere certi delle cose di cui siamo certi; che la conoscenza delle verità di esse non sia fallace? Analiticamente, ossia sviluppando l’argomento passo per passo, ci dilungheremmo moltissimo; mentre invece la risposta sintetica, principiale, è sorprendentemente semplice. La Verità Assoluta, ossia ab solutam, ossia non dipendente da altro se non se stessa, e quindi del tutto sufficiente a se stessa, deve esistere di necessità; giacché la sua negazione sarebbe in realtà l’affermazione della sua inesistenza, e tale affermazione, per essere vera, non può esserlo sub conditione, ossia non può essere relativa; bensì assoluta. Ma, se assoluta, la negazione finisce per affermare ciò intendeva negare. Noi, quindi, siamo, per così dire, costretti alla certezza assoluta dell’esistenza della Verità. Ma se tale Verità esiste, ne consegue che devono esiste cose vere, e analisi dei fatti del mondo vere.
2°, sul piano fenomenologico, non ci potrà mai essere un trasferimento di conoscenze oggettivo e completo da una mente all’altra, giacché nella “traduzione” verbale del pensato da un soggetto ad un altro soggetto, per quanto accurata possa essere tale traduzione, si perderà sempre tutta quella corona sottile di significati che è impossibile da rendere a chi è estraneo alla nostra biografia.
3°, è impossibile (come mi pare auspicasse Fabio) una verifica certa, oggettiva e definitiva, dei fatti e dei processi storici, e persino di minuzie della cronaca. Non è possibile, in linea di principio, la resa di tutti i punti di vista, neppure su accadimenti banali; occorrerebbe una coscienza infinita e una conoscenza infinita.
Inoltre, non è possibile replicare nessuno dei fatti del mondo, dato che lo stato dell’universo intero muta di nano secondo in nano secondo, e quindi, se nulla è replicabile, cos’è che sarebbe sottoposto a verifica. Per inciso, questa è una questione non affrontata con sufficiente rigore nell’epistemologia strettamente scientifica.
La verità del mondo appare quando si smette di imprestargli le nostre etichette, e quando cessiamo di pretendere che esso si faccia imprigionare nelle nostre astrazioni. I bambini e gli animali superiori vivono un mondo incomparabilmente più reale del nostro. Poi i bambini cominciano a fare domande, e si avviamo a diventare adulti, i quali non troveranno mai più la risposta. Salvo, come disse Cristo, ritornare bambini. Solo i mistici vedono il mondo per quello che è.
Una volta che si smette di fare domande, ci si accorge che ogni possibile risposta l’abbiamo sempre avuta più vicina della punta del nostro naso.
Questo è lo scopo ultimo della filosofia: imparare il Silenzio.
P.s.
Ma, fin quando si parla, bisogna saperlo fare.
Nel mio abisso di ignoranza stento a capire i nessi tra tutto quel che ha scritto… Ma una cosa mi sento di condividere, e fa lo stesso se non vorrà tenerne conto considerandomi un fastidio. Quando scrive “imparare il Silenzio”, io lo intendo in senso letterale, così mi piace intenderlo. Il che significa rimanere senza parole ma non muti, e con la capacità di ascoltare acuita. Che significa anche capacità di diventare empatici con chi ci sta parlando, un amore per la conoscenza dell’altro che spesso diventa un bagaglio culturale che contraddistingue chi la vita l’ha capita o almeno prova a farlo.
Aggiungo che, effettivamente, la percezione del mondo di ciascuno non è altro che una serie di apparenze. Penso banalmente, per esempio, che se il mondo fosse un elefante degli osservatori messi in cerchio a distanze differenti attorno alla bestia la vedrebbero in modo diverso, sempre parziale, molto parziale chi la osservasse da vicino vicino. Se gli osservatori si spostassero vedrebbero cose diverse ma la bestia resterebbe uguale a se stessa… Per questo contesto che possa esistere una verità di cui si possa essere certi. Chi sostiene ciò rischia, a mio avviso, di essere smentito non appena cambia prospettiva e resta confuso dal nuovo punto di vista.
A)Quando dico che Francesco, in qualche modo può e deve essere ascoltato, non intendo dire che sia una sorta di santo sceso in terra, ma che ciò che dice (non avendo altro che la nostra superbia come polo cardinale), stranamente lo ritroviamo negli antichi testi (la ricerca della saggezza/sapienza platonica e biblica) e contemporaneamente sembra perfino comparire nelle rappresentazioni degli artisti e letterati (pensiamo alla sfiducia verso l’erudizione scientifica, verso l’accademia) e, dulcis in fundo, che non manca nelle riflessioni di molti scienziati.
Allora dico che per me quel che dice Francesco è estremamente significativo perché presente nelle tre componenti base del tessuto più intimo della nostra cultura: Arte, Scienza, Religione.
B)Quando invece dico che ‘Francesco non riesco proprio a capirlo, intendo dire che sta riportando un pensiero contrario a ciò che ha già espresso in precedenza, proprio nelle nostre discussioni.
Ad esempio, quando reitera, per me stranamente, che non è possibile una verifica certa, oggettiva e definitiva dei fatti, capisco il pensiero che ‘è vero in senso generale’, ma non capisco Francesco, perché abbiamo già parlato di ‘meccanicismo’ e dei suoi settori di competenza nel mondo fisico, (dove perciò può ritenersi affidabile, può fornire verifiche). Dire che non esiste maniera di riprodurre verifiche del mondo reale’ , in assoluto, è dunque falso! O perlomeno non lo capisco, perché con Francesco abbiamo già convenuto che il meccanicismo newtoniano, in determinati settori questa astrazione può farla e può quindi aiutarci a capire un determinato tipo di fenomeni proprio attraverso verifiche oggettive. Stop.
@Giuseppe
Ebbene sì! Francesco Emme, fra le tante qualità non sembra palesare – decisamente – il dono della sintesi. Bisogna dire che, come comunicatore da piazza, lascia un po’ a desiderare eh! Però, tutto ciò di cui ci fa partecipi, non è certo campato per aria e ritengo nasconda dolorose zampate di saggezza/sapienza.
Dalla Saggezza platonica siamo lontani, eh Francesco, vista e considerata la sua avversione per il numeri e per l’astronomia, cioè per quelle particolari dinamiche celesti da cui si apprende la logica matematica, madre – per Platone – di tutte le sapienze.
Ad esempio, accorto e c@ro Giuseppe, dire che il linguaggio, quello fatto di parole (gli artisti non lo usano, ad esempio), possano veicolare conoscenza, è un’assurdità senza pari! Non occorrono faticosissimi virtuosismi logici per capirlo. Anche nel nostro piccolo lo stiamo mostrando chiaramente: più discorriamo, più fra le nostre iniziali empatie e condivisioni si ergono muri altissimi e sempre più spessi, con un amalgama di peccaminosissimo orgoglio e utilissimo pregiudizio, a fare da malta. E per i più duri di comprendonio c’è il bacino illimitato degli esempi offerti dalla rete, nella quale, ahimè, i nostri sforzi non ci valgono il merito di eccezione ma quello di comune regola.
Io, però volevo dire che, semmai dovessimo risolvere un problema pratico e da questa soluzione dovesse dipendere la nostra o altrui sopravvivenza, come esseri umani dovremmo dotarci di un codice. Forse il termine più appropriato è proprio questo: codice . A quel punto, le parole servirebbero poco, se ad esse non facesse seguito un preciso riferimento simbolico. Un codice, infatti, può esser fatto di segni, gesti o espressioni mimiche, da simboli fisici (una pietra o due bastoncelli incrociati). Basta mettersi d’accordo, perdiamine!.
Facciamo finta che dal codice per trascrivere in corsivo e in grassetto, fosse dipesa la vita di Francesco. Ebbene, non condividendolo con me, lui sarebbe già bello che spacciato. A proposito, Francesco, gliel’ho riportato, papale papale, nel post linkato là sopra. Ciononostante non sembra aver fatto passi avanti. Quel è il confine fra la mia inadeguatezza didattica e la sua innata difficoltà? Difficile a dirsi. Chi lo ha compreso può invece utilizzarlo, mostrando che il codice era ed è valido, cioè non interpretabile, per lo scopo che si era prefissato.
A quel punto potremmo pensare di aver prodotto un trasferimento di conoscenza, ma per esser tale, questa acquisizione sarebbe dovuta essere molto importante in rapporto al nostro vissuto e avrebbe dovuto provocare un’azione positiva o una negativa (conoscenze anch’essa molto importanti, quelle negative, per consentire un procedimento cognitivo di aggiustamento) e non un solidale plauso di buona accoglienza. Ciò per dire che un codice è sempre efficace se posto in relazione a uno scopo, se aiuta insomma a risolvere un problema pratico.
Gentile Fabio, ho fiducia che se ci trovassimo faccia a faccia davanti ad un coppa di cremolata di fragole con panna, questa questione:
(“Quando invece dico che ‘Francesco non riesco proprio a capirlo, intendo dire che sta riportando un pensiero contrario a ciò che ha già espresso in precedenza, proprio nelle nostre discussioni.
Ad esempio, quando reitera, per me stranamente, che non è possibile una verifica certa, oggettiva e definitiva dei fatti, capisco il pensiero che ‘è vero in senso generale…”)
la risolveremmo prima di aver lasciato la (seconda!) coppa vuota. Ma dato che abbiamo solo una tastiera di plastica, vedremo di arrangiarci.
Per inciso, non so a quale mia precisa affermazione lei si riferisce con (“sta riportando un pensiero contrario a ciò che ha già espresso in precedenza”); mi sembra davvero strano, se non proprio impossibile, che su questo tela possa aver detto qualcosa di diverso. Vediamo se riusciamo a chiarirci.
Immagino lei sia d’accordo che un conto sono i fatti del mondo riferentesi all’agire umano (ciò che, molto in generale, si chiama Storia); altro sono gli accadimenti del mondo naturale.
Quanto ai primi, con buona pace del “metodo storiografico”, e per ragioni che brevemente esporrò (giacché pertengono il nostro tema), sono doppiamente non verificabili.
Prima ragione: il semplice buon senso ci obbliga a convenire che è già difficile sapere esattamente ciò che è avvenuto stamane (non 20 secoli fa) nella piazzetta del paesello, dove Marietto e Peppinello hanno questionato. E che dire della scivolosità delle prove forensi, che dovrebbero ricostruire “oggettivamente” le circostanze di un dato fatto criminoso; raccolte, classificare ed esaminate, mettendo assieme il meglio di una decina di discipline diverse; ma che, ciò nondimeno, hanno fatto tirare il collo ad innumerevoli innocenti e lasciati ad una vita gaudiosa dei pendagli da forca!!! E per tacere della intrinseca fallacia della nostra stessa memoria, su cui fonda quella fantastica illusione che si chiama ego! Per carità, non allarghiamoci, non voglio estendere adesso il discorso alla filosofia della mente, era solo per rendere l’idea, per rendere chiaro che se non ci possiamo fidare del nucleo da cui partono tutte le innumerevoli storie, ossia la nostra storia/ego, con che pretesa possiamo presumere di conoscere “oggettivamente” ciò che accadde in Gallia ai tempi di Cesare? Da ciò, il massimo cui può ambire la crema della migliore storiografia è un resoconto verosimile dei fatti.
L’altro elemento che rende impossibile la verificabilità, mai abbastanza sottolineato, è che la Storia è sempre scritta dai vincitori, i quali, presumendo siano bravi (e se hanno vinto bravi devono esserlo), avranno cura di lasciare agli storiografi a venire le “prove” che a loro convengono. Sotto questo aspetto, l’intera Storia del secolo passato è una prodigiosa collezione di falsificazioni. Mi pare che su questo punto ci sia poco da dibattere; ma se così, se la Storia (dei libri di Storia) patisce il difetto insuperabile di essere scritta, uno strato dopo l’altro, dal vincitore, quale revisionismo sarà mai possibile, dato che il Principe non permetterà mai al revisionista di contraddire la sostanza della sua versione? La Storia è così un’altra delle leggende che gli uomini si sono costruite allo scopo di gratificare se stessi per essere bravi in qualcosa.
Ma mi accorgo adesso che ho lasciato fuori un elemento importantissimo. Come ha fatto rilevare, correttamente, Anonimo, un’epoca non è intercambiabile con un’altra. Anonimo ha mostrato che interpretare il Medioevo a partire dalle categorie della modernità è un’operazione di una cecità imperdonabile. Eppure, che il Medioevo sia l’epoca oscura per eccellenza, i secoli bui (mentre i nostri, ci mancherebbe, sono luminosi), è diventata una di quelle premesse culturali implicite di cui parlavo. Figuriamoci comprendere una Civiltà come quella tibetana dell’epoca Yungdrung Bon, e verificarne questo o quell’altro!
L’altro ordine di fenomeni è dato dagli accadimenti del mondo naturale. Data la loro specie extra umana, tale ordine di fenomeni è certamente più oggettivabile rispetto alla categoria dei fatti storici, ma la sua conoscenza rimane comunque soggetta, seppur in misura ed in guisa differente, a quella intrinseca ad ogni accadimento del mondo naturale.
E poi, è già un errore parlare di accadimenti naturali extra umani in senso assoluto, se davvero lo fossero non potremmo neppure concepirli. Ci sono, di necessità, fatti del mondo che non potremo mai conoscere, per limiti intrinseci alla conoscenza fenomenologica, vedi (è solo un esempio per tutti) il magistrale saggio di Nigel “What is it like to be a bat?”; ove Nigel dimostra l’impossibilità di compiere un esperimento mentale del genere da lui immaginato; l’impossibilità, in moltissimi casi, di rendere oggettivo ciò che è soggettivo. Qui pongo una domanda, a proposito della algoritmizzazione della conoscenza scientifica. Poniamo la semplice osservazione del fenomeno della caduta di una mela da un albero. Posso dire: una mela cade dall’albero (modalità oggettiva), oppure: vedo una mela cadere dall’albero (modalità soggettiva). Quale delle due modalità descrive in modo migliore e più completo l’accadimento? In altri termini, può darsi un enunciato ”una mela cade dall’albero”, in assenza di qualcuno capace di resocontare “vedo una mela cadere dall’albero?”
La risposta è obbligata: ci può essere una descrizione, una notazione, senza un descrittore, un notatore? Senza il soggetto, l’oggetto (come oggetto) svanisce, mentre non accade il contrario; giacché è perfettamente possibile che la coscienza del descrittore sussista anche in assenza dell’attività descrittiva; senza (si faccia bene attenzione) che l’oggetto descritto nella modalità bi-polare “soggetto-oggetto” svanisca! Non svanisce affatto, non può svanire, ciò che accade è che non viene connotato, non viene dialettizzato come “oggetto”. Questo determina la priorità ontologica di ciò che, in assenza di un termine migliore, conveniamo definire “soggetto”, in quanto fonte irriducibile di coscienza.
Questa è una specie di premessa a quanto avrei detto dopo, in risposta a Fabio, se ne avessi avuto il tempo. Purtroppo devo chiudere, senza avergli risposto, nella speranza fondata di chiarire la nostra questione. Confidiamo nel domani.
Ma prima devo per forza spendere due parole su queste righe di Fabio:
“ A)Quando dico che Francesco, in qualche modo può e deve essere ascoltato, non intendo dire che sia una sorta di santo sceso in terra, ma che ciò che dice (non avendo altro che la nostra superbia come polo cardinale), stranamente lo ritroviamo negli antichi testi (la ricerca della saggezza/sapienza platonica e biblica) e contemporaneamente sembra perfino comparire nelle rappresentazioni degli artisti e letterati (pensiamo alla sfiducia verso l’erudizione scientifica, verso l’accademia) e, dulcis in fundo, che non manca nelle riflessioni di molti scienziati.
Allora dico che per me quel che dice Francesco è estremamente significativo perché presente nelle tre componenti base del tessuto più intimo della nostra cultura: Arte, Scienza, Religione…”
In breve, ciò che io riporto, l’ho scritto altre volte, è frutto della conoscenza e della comprensione della cosiddetta “Sophia Perennis”. Nella sostanza, di mio non c’è nulla; non sono l’inventore di alcuna filosofia, tutto ciò che scrivo (a parte le ovvie nozioni legate al mio tempo) affonda nelle Dottrine Tradizionali, formulate da Maestri cui devo tutto. Semmai, a mio carico vanno i limiti di tale conoscenza e gli errori di esposizione. Né a mio merito posso addurre le esperienze e gli incontri che ho avuto l’incommensurabile fortuna di avere nel corso della mia ricerca dell’acqua che toglie per sempre la sete, e che mi permettono di parlare di taluni argomenti con una certa competenza.
Fortuna, strana, incomprensibile fortuna; che però spesso, con un lieve colpo di coda, si riprende i suoi stessi favori. E’ vero, alla mensa della vita non ci sono pasti gratis. E se pensi che ti sia andata bene, che hai gabbato la sorte, che ce l’hai fatta a non pagare il conto, sappi che quel conto che non hai saldato sarà qualcun altro a pagarlo.
L’intervento di Francesco, su cui concordo, permette di fare alcune precisazioni che potrebbero risultare utili:
1) Ho già avuto modo di scrivere che, dal mio punto di vista, la c.d. scienza moderna è una “prassi cognitiva”. Con ciò non ho affatto inteso sminuirla o disprezzarla, ma semplicemente considerarla per quello che è realmente, dando a ciascuna cosa il posto che le compete. Dire che è una prassi cognitiva non significa altro che questo: si tratta di un modo razionale e potenzialmente ragionevole di organizzare l’esperienza collettiva che un gruppo socio/culturale fa del mondo. Ciò può essere fatto semplicemente concordando a quali condizioni un fatto o, meglio, la descrizione di un fatto e la sua collocazione in una visione più o meno complessiva delle cose possono essere tenuti per veri. “Essere tenuti per veri” non significa a sua volta in nessun modo “essere veri”, ma soltanto essere accettati, fino a prova contraria, come assunzioni (premesse) valide in ogni ragionamento o procedimento razionale successivo. Sotto questo aspetto, la “capacità di previsione” riconosciuta da Fabio come criterio di verità scientifica risulta effettivamente il criterio fondante, a patto però di comprendere che essa non è che un aspetto del carattere intrinsecamente teleologico che dovrebbe, se l’impostazione rimanesse sempre corretta, caratterizzare tutto il metodo scientifico. In altre parole, per dirla con Feyerabend, la teoria scientifica deve prima di tutto funzionare, cioè essere in grado di fare da strumento orientativo rispetto al mondo e lo scienziato non può essere altro che un “opportunista”. E’ chiaro che, sotto questa luce alcuni fenomeni, quelli che vengono studiati dalle c.d. Scienze della Natura e soprattutto quelli fisici, si prestano meglio di altri ad una simile prassi. Quanto ai c.d. fatti storici, è ovvio che in essi esiste un grado molto maggiore di ambiguità ed incertezza anche perché si tratta di fenomeni per definizione non ripetibili. Intese così, comunque, sia la scienza che la storia potrebbero avere una loro giustificazione ed una loro ragionevolezza, almeno in mancanza di altro e di meglio. Ciò nondimeno, è fondamentale non dimenticare il carattere essenzialmente convenzionale (il che non significa affatto arbitrario) che tutto ciò assume e che non ha rapporti, se non del tutto accidentali, con la vera Conoscenza. Se lo si dimentica, cosa che avviene di solito in effetti, cominciano i guai.
2) Se dovesse essere inserita nel quadro della visione tipica del Mondo Medioevale, la prassi cognitiva rientrerebbe per intero in quella che veniva definita come sfera del “probabile”. “Probabilis”, in latino, non ha lo stesso significato della parola “probabile” in italiano; significa piuttosto, letteralmente, ciò che deve essere sottoposto continuamente a “prova”, cioè che deve essere continuamente affinato, definito e ridefinito, rispetto ai casi concreti. Formalmente, la tesi “probabilis” assume sempre la forma bipolare di un’affermazione e del suo contrario, da vagliare continuamente nel raffronto con i vari “casus”.
3) Il carattere convenzionale e pratico della “verificabilità” è evidente: niente mi assicura che le due fattispecie che esitano in maniera apparentemente uguale siano veramente identiche, nè che lo siano effettivamente i loro risultati. Se anche la ripetizione dell’esperimento n volte ha successo, tutto quello che ottengo è, per così dire, un’astrazione dell’esperienza che non fa altro che estrapolare da ogni singolo evento le caratteristiche e le osservazioni opportunamente normalizzate, mentre le altre, fino a che non si impongano per caso con particolare insistenza ed evidenza, in modo da contraddire la tesi, vengono ordinariamente tralasciate. Può peraltro accadere che, per ragioni di carattere socio/economico/culturale, anche di fronte ad evidenze contrarie, si possa assistere al pervicace mantenimento delle tesi smentite.
4) E’ qui che iniziano però i veri guai, perché quanto detto al punto 3), se non viene apertamente riconosciuto, trasforma una prassi razionalizzata in una pretesa conoscenza reale del mondo che allora non può non assumere un carattere essenzialmente astratto; tale carattere si pone in evidente contraddizione logica con la natura di prassi e con la sua finalità eminentemente pratica. Questa contraddizione, potrebbe dire molto sull’esperienza o, meglio, sulla pseudoesperienza che l’uomo moderno fa del mondo.
Ebbene sì, la cremolata ci disporrebbe assai bene. A ben vedere, possediamo però molte tastiere, diversi ambienti di scrittura (benché quello alternativo venga poco considerato), tanta buona volontà, pazienza e una discreta quantità di tempo. Tutta roba che non vale il gusto della cremolata, vabbè, ma ce le faremo bastare.
Rispondo inizialmente alla domanda:…può darsi un enunciato ”una mela cade dall’albero”, in assenza di qualcuno capace di resocontare “vedo una mela cadere dall’albero?”
L’enunciato non ha valore di informazione, ecco perché diventa – a mio avviso – interpretabile. Può perciò essere inteso in mille modi dacché e finché non serve a padroneggiare questioni di capitale importanza né per lei , né per me. In pratica, senza una relazione con uno scopo (cioè con l’ambiente), l’enunciato diventa impraticabile, che lo si dia in questi termini, o non lo si dia affatto!
Lo si può anche proferire in assenza di qualcuno che veda il fenomeno, a patto che non sia il primo, cioè che si parli di un’esperienza già codificata e acquisita dal soggetto referente e da quello ricevente.
INTERPRETABILITA’ DELLA PAROLA, inadeguatezza informatica.
‘Una mela cade dall’albero’ può voler dire che una mela è matura! Oppure può fornire un avviso: ‘attenzione che la mela successiva può caderti in testa’ (Vedi il bernoccolo di Newton’. Ed inoltre chi ci dice che non ci sia qualche birbone che lancia le mele dall’albero di arance? dato che l’albero non ha connotazioni esplicite? Vede allora che l’informazione apparentemente corretta (infatti anche una mela lanciata da un marmocchio arrampicatosi su un albero di pere , se nessuno si accorge delle sue intenzioni ed azioni, rimane una mela caduta dall’albero) non rappresenta una informazione, ma casomai una pseudo informazione soggetta a interpretabilità di giudizio, finché non la si polarizza verso uno scopo pratico, un problema. Così concludevo la mia precedente. Essa quindi, fintanto che viene meno il suo rapporto con l’ambiente, rimane un’indicazione inutile e vaga,. Che ce ne frega se la mela sta cadendo dall’albero? Chi ha richiesto questa informazione?.
La comunicazione allora, come le diceva il Pandit, è un fatto di relazione fra comunicanti, ambiente e tutto il resto. Se non è richiesta/utile, non si tratta di comunicazione cognitiva: non è nulla, ed oltretutto una volta sottoposta a interpretabilità di giudizio può servire ad eventuali scopi mistificatori. Ed allora la pertinenza delle nostre animate chiacchiere, sembra conciliarsi al thread di questo articolo del Pennetta ed addirittura mi sembra aver il pregio di scandirne i limiti, dacché racconta di un tipo di censura che si basa sulla modificazione dei significati (perseguibile facendo leva sulla loro ‘molteplice’ valenza degli stessi). La ascolto Francesco, quando dice che occorre studio e preparazione per evitare questo problema, ma la cosa, in senso generale non è possibile. La sua visione è utopistica! Ed ancora una volta il Pennetta ci viene incontro per capire le induzioni educative che portano la massa a non poter seguire il percorso da lei auspicato, di giusta, faticosa erudizione.
Torniamo a noi: La mela è caduta dall’albero.
La frase di per sé appare vaga/inutile come informazione. Poiché, se il destinatario non è presente (altrimenti basterebbe un’informazione più semplice: ‘Attento!’), l’informazione ‘è caduta una mela dall’albero!’ potrebbe voler dire un mucchio di cose:
– ‘è arrivato il tempo della raccolta’.
– C’è un marmocchio che gioca sull’albero
– Attenzione al rischio di farsi male
Insomma, detta così, l’informazione non serve a nessuno. Come anticipavo prima, tuttavia, l’informazione per dirsi tale non può astrarsi dalla realtà (come stiamo facendo noi), e quindi non può prescindere dalla relazione con lo scopo; Se questo scopo non è legato alla sopravvivenza, o alla salute (non beccarsi il pomo sul grugno) del soggetto ricevente, l’informazione è da ritenersi nulla.
E dunque, per soddisfare la sua domanda, Francesco, direi che resocontare ad un fine preciso un fenomeno, richiede un linguaggio più evoluto: cioè una codificazione di dati utili alla formulazione di un calcolo di previsione col quale raggiungere il fine, salvifico o esortativo. Resocontare così a casaccio, senza alcuno scopo legato alla soluzione di una problematicità comune (ma anche solo bilaterale), non riguarda la conoscenza. Secondo questa linea di pensiero, va da sé allora che l’importanza debba sottostare a una classifica delle priorità; la necessità di rigore descrittivo e predittivo del fenomeno, deve stare pertanto ed inequivocabilmente in rapporto con l’urgenza dell’effetto rilevato: secondo questa scala di priorità, bisognerà ricorrere al rigore matematico se l’effetto voluto riguarda la sopravvivenza della specie, minor rigore se riguarda la sopravvivenza dell’individuo, minor rigore ancora se riguarda un danno limitato, e via dicendo. Quindi che la mela cada o meno dall’albero è una pseudo-informazione per gli abitanti del deserto del Gobi, mentre è una preziosa indicazione per gli agricoltori veneti che si doteranno di un codice di informazioni matematiche/quuantitative, onde effettuare una serie di previsioni utili.
A questo punto, cioè se vi fosse una necessità finalizzata (nel richiedente un apporto informatico), l’informazione stessa dovrebbe dotarsi – per esser tale – dell’innato codice di base e permettere l’annotazione di dati quali peso della mela (quantità), altezza dell’albero (quantità), tempo di caduta, quantità delle mele cadute, tipo di albero da cui è caduta, periodo in cui è caduta, etc. etc.
@Francesco M
In quanto all’eventuale fraintendimento, è documentato qui
https://arteeordineanarchico.blogspot.com/2021/03/ancora-sullinterpretazione-un.html
In sintesi, ecco il suo ultimo commento di quella discussione:
FRANCESCO M:
“Il buon Newton va tuttavia ancora benissimo quando si tratta di fare muovere un ascensore o sparare un vettore nello spazio più prossimo, questo sì”. Giusta conclusione, la matematizzazione della natura rende possibili certe cose. Innegabile. E torno a chiedere, dove sta “episteme” nella Scienza, di cosa è conoscenza? Non vorrei essere frainteso, non voglio sminuiere, quanto non voglio esaltare. Anche io, come tutti, credo, sono cresciuto col mito della Scienza, fin quando non ho compreso che la Scienza non è quello che credevo fosse, ed anzi, ciò che credevo (ed è lo stesso per moltissimi) era qualcosa di assolutamente non chiaro. La Scienza, mi si perdoni la ripetizione, di cosa è conoscenza? Se arriveremo ad una risposta, o, perlomeno, se concorderemo su una risposta, parleremo del resto.
REPLY
FABIO PB on 14 FEBBRAIO 2021 20:40
Di cosa è conoscenza?
– Di una limitata parte di fenomeni. Non certo di tutti quelli che crediamo. Sì, è duro scoprire che Babbo Natale non esiste. Lo è stato per tutti. Siamo su una chiatta in balia delle tempeste. La purezza d’animo (tornare a una forma di incontaminazione culturale, se questa è la cultura in cui viviamo) ci aiuterà nella buona sorte. fine
Non seguono ulteriori repliche a questa definitiva affermazione. Che quindi ho creduto condivisa pienamente.
E dunque, in quella limitata parte di fenomeni una, seppur minima parte di conoscenza (attendibilità delle previsioni) è possibile. Non certo tutta, bensì solo una minima parte: quella meccanica. Sappiamo tutti che la Conoscenza in un senso più alto, sia altra cosa. Tuttavia, accontentiamoci. Il problema è che sulla base di questi successi, si pretende di applicare tali, limitati criteri di indagine meccanica, a tutti i campi della realtà, anche a quella non-meccanica. Attenzione!, non voglio dire che quella non-meccanica sia biologica in tutto e per tutto, perché ad esempio una parte del corpo umano funziona in un ordine di idee e misure efficacemente rappresentabili in senso ‘meccanico’, benché appartengano a un corpo organico (bio-meccanica) . Di questo paradosso andiamo discutendo col Pennetta e, perciò, del modo di evitarlo che, per me, dovrebbe riguardare l’individuazione di un soggetto/criterio condivisibile di discriminazione ( in natura) fra meccanico e non-meccanico, cioè di un criterio di separazione fra i due diversi modi di rappresentare la bio-realtà. Se non lo si saprà, non solo individuare chiaramente già in queste discussioni, ma renderlo addirittura condivisibile ai più, non credo e non auspico grandi cambiamenti da qui in avanti.
@Anonimo ‘…con la sua finalità eminentemente pratica’. Credo così di aver risposto e tradotto in termini più accessibili, anche all’opportuno intervento del gentile Anonimo, punto 4.
@Anonimo, sottoscrivo il suo intervento, ringraziandola per aver approfondito aspetti della questione che avevo trascurato.
@Fabio PB, non c’è (e non può esservi) contraddizione né opposizione tra la sua e la mia tesi, giacché fanno riferimento a livelli, forse meglio “momenti”, dell’atto conoscitivo del tutto distinti e separati, almeno se li si vuole esaminare analiticamente. Per comodità, faccio mia la penta partizione che, partendo da Platone e passando per Aristotele, fino a tutta la filosofia medioevale, ed oltre, arriva al neotomismo di Maritain, Amerio, Gilson, e (a quello che è, secondo me, il maggior interprete cattolico del tradimento modernista della Chiesa) Del Noce.
Di questa penta partizione, lei, nel suo ultimo post, tratta quasi esclusivamente il quinto, ed ultimo in ordine di rilevanza, elemento (in parte il quarto): tèchne, ossia la capacità d progettare, fare, produrre, cose utili, sulla base di idee (Platone) o forme (Aristotele) eterne. Ergo, la BASE che permette di fare, produrre, trasformare, trascende l’ordine della prassi, dell’empirico, fondando essa, soprattutto, sui primi tre elementi della partizione (idee, forme, eterne), che qui riporto per comodità e chiarezza:
1°, Sophia (Sapienza);
2°, Nous (Intelletto);
3°, Epistéme (Conoscenza-Scienza);
4°, Phrònesis (Saggezza)
5°, Tèchne (Arte, progettualità, nel senso greco latino e medioevale di maestria).
Quando lei scrive
“… In pratica, senza una relazione con uno scopo (cioè con l’ambiente), l’enunciato diventa impraticabile, che lo si dia in questi termini, o non lo si dia affatto!”,
lei fa riferimento esplicito all’aspetto teleologico (scopi, obiettivi), che può riguardare il quarto e quinto elemento della partizione, mentre io mi riferivo soltanto ai primi due e solo indirettamente al terzo. A me interessa solo la struttura logica dei due enunciati sulla mela che cade, quale dei due ha maggiore consistenza, e quale esplicita maggiore verità sul mondo. Se prima non stabilisco questo con certezza (livello 1 e 2), manca il fondamento per tutto ciò che si sviluppa dopo, nell’ordine teleologico ed in quello della prassi (livello 3 e 4). Prima di passare oltre, sottolineo ancora l’ordine gerarchico di questi cinque momenti o modelli, che Aristotele chiamava “virtù”, nel senso greco di natura propria, o proprietà irriducibile. Ancora in altri termini: a me interessa, prima di tutto, stabilire se la sua verità è più consistente nella modalità oggettiva o in quella soggettiva; per tale ragione, non ha alcuna rilevanza se esso ha o non ha “una relazione con uno scopo (cioè con l’ambiente)”, come, lei scrive, giacché la sua struttura logica non ha rapporto alcuno col suo uso. Uso che può esservi o non esservi.
Io lo so bene che se vado a bussare alla porta del contadino, e gli dico “sa, una mela cade dall’albero”, lui, se di buon umore, mi sorride e mi augura buone sorte, pensando di aver a che fare con un lunatico. E la sua sarebbe una risposta corretta. Ma non è del valore immediatamente empirico, o della “finalità ambientale” di “una mela cade dall’albero” che stavo parlando, ma del suo essere quell’enunciato più o meno vero, a seconda della modalità oggettiva e soggettiva. L’esempio dei due enunciati sulla mela concerneva l’approccio cognitivo basico al mondo; e non aspetti teleologici e pragmatici della mia interazione col mondo. In sintesi, ci riferiamo a cose diverse.
Volevo per la verità finire di trattare l’argomento che ho lasciato in sospeso ieri, sarà, probabilmente per domani (?), quando, se il discorso non si allarga ancora, risponderò a questo:
FRANCESCO M:
“Il buon Newton va tuttavia ancora benissimo quando si tratta di fare muovere un ascensore o sparare un vettore nello spazio più prossimo, questo sì”. Giusta conclusione, la matematizzazione della natura rende possibili certe cose. Innegabile. E torno a chiedere, dove sta “episteme” nella Scienza, di cosa è conoscenza? Non vorrei essere frainteso, non voglio sminuire, quanto non voglio esaltare. Anche io, come tutti, credo, sono cresciuto col mito della Scienza, fin quando non ho compreso che la Scienza non è quello che credevo fosse, ed anzi, ciò che credevo (ed è lo stesso per moltissimi) era qualcosa di assolutamente non chiaro. La Scienza, mi si perdoni la ripetizione, di cosa è conoscenza? Se arriveremo ad una risposta, o, perlomeno, se concorderemo su una risposta, parleremo del resto”.
Bene , comincio ad orientarmi. Grazie Francesco per la sua pazienza. Attendo ulteriori approfondimenti sul tema. Un ringraziamento anche al puntuale e cortese @Anonimo
Per prima cosa, sento il dovere di ringraziare Enzo, per consentirci (a partire da una discussione sulla censura) di seguitare questo dibattito, per quanto esso coerente con le ragioni fondanti di questo blog.
Venendo brevemente a noi, mi pare che una delle note più rilevanti di questo scambio, sia l’evidenza dei problemi di comunicazione, la cui incidenza è troppo spesso sottovaluta. Una cosa è essere (se lo sì è) un buon scienziato o filosofo, altra è sapere comunicare. E ne parlo per esperienza diretta; per quanto pensassi di conoscere l’importanza della comunicazione, mi accorsi quanto poco ne sapevo, una volta conosciuta l’opera di Paul Watzlawick, Gregory Bateson e Milton Erickson, e in generale della cosiddetta “Scuola di Palo Alto”. E’ per questa ragione che do un’importanza da qualcuno giudicata persino pedante alle premesse e alla chiarificazione semantica; e, soprattutto nelle fasi preliminari di un dibattito, a un procedere a passo d’uomo nello svolgimento inferenziale.
Ad ogni modo, per quanto concerne la tèchne della cremolata, occorre chiarire la differenza tra una granita e una cremolata. La differenza sta soprattutto nelle rispettive materie prime. La materia prima della granita è un succo di frutta più o meno concentrato, prescindendo dalla concentrazione e dalla qualità. La materia prima della cremolata, invece, è il frutto stesso. Per potersi definire cremolata, a detta di qualificati maestri gelatai (di cui coltivo devotamente l’amicizia), occorre che almeno il 50% del prodotto finito sia costituito da materia prima; con un massimo % di 70. Ora immaginate una cremolata fatta col 60/65% di fragoline di bosco, regalizzata da una corona di panna montata alla maniera tradizionale, ossia fatta montare nel pozzetto!!! Ecco, mancano le parole! Si assapora in silenzio, e dopo, in favore di bonaccia, si può persino camminare sulle acque.
Gentile professor Pennetta,
nel ringraziarla per il suo contributo alla divulgazione della conoscenza contro l’oscurantismo imperante, le esprimo il mio grande apprezzamento per aver abbandonato una piattaforma che merita di finire sepolta nel deserto che ha seminato. Ho già invitato tramite emai altri siti a rivolgersi a piattaforme alternative, in quanto sono i contenuti degli utenti, a garantire loro visibilità e iscritti, non il contrario. Non è youtube che ha il coltello dalla parte del manico ed è ora che anche loro ne prendano atto. Consiglio per tanto di caricare i contenuti su almeno 2 o 3 delle piattaforme alternative, finché non ne emergerà una prevalente, in grado di offrire una gran quantità di contenuti, catalizzando tutti quelli di cui youtube crede di poter fare a meno. Il problema si crea se i contenuti, verranno sparpagliati su troppe piattaforme, ma caricandoli su tutte quelle principali, in breve emergerà naturalmente una valida alternativa all’egemone e dispotica youtube. Come si diceva una volta: “chi troppo vuole nulla stringe”.
Grazie, grazie e grazie di nuovo.
Gent.mo Fabio,
non ho dimenticato il sospeso. Purtroppo, sono incappato in personali limiti di tempo; ma soprattutto problemi di compressione del testo. Impossible una trattazione appena coerente del tema, in questa sede. Ho pensato di proporre una serie di semplici note chiaramente introdotte e sufficientemente argomentate, da utilizzare come spunto per riflessioni da sviluppare una volta che l’argomento specifico verterà sull’episteme.
Nel mentre, allego il video di un medico, deciso, preciso, esplicito. Mi astengo da commenti.
https://www.facebook.com/medico.incazzato.5/videos/296979138599629/?d=w
Ciò che segue non ha la pretesa di essere neppure una mini monografia di critica epistemologica; è solo una serie di note correlate tra loro da un legame ellittico. Lascio a chi mi legge apprezzare o meno la mancanza di sistematicità. Che sarebbe stata in ogni caso impossibile, tali sono le implicazioni di ogni singolo tema. Farò delle domande, ad alcune darò risposta, altre le lascerò in sospeso.
Scrivevo:
“Il buon Newton va tuttavia ancora benissimo quando si tratta di fare muovere un ascensore o sparare un vettore nello spazio più prossimo, questo sì”. Giusta conclusione, la matematizzazione della natura rende possibili certe cose. Innegabile. E torno a chiedere, dove sta “episteme” nella Scienza, di cosa è conoscenza? Non vorrei essere frainteso, non voglio sminuire, quanto non voglio esaltare. Anche io, come tutti, credo, sono cresciuto col mito della Scienza, fin quando non ho compreso che la Scienza non è quello che credevo fosse, ed anzi, ciò che credevo (ed è lo stesso per moltissimi) era qualcosa di assolutamente non chiaro. La Scienza, mi si perdoni la ripetizione, di cosa è conoscenza? Se arriveremo ad una risposta, o, perlomeno, se concorderemo su una risposta, parleremo del resto”.
E quindi, riprendiamo.
La definizione di “Realtà” o è un abuso delle possibilità linguistiche, oppure è uno di quei casi in cui il linguaggio si mette di traverso alla logica. Un terzo caso, compresa la ragione dei primi due, potrebbe essere quello di utilizzare, consapevolmente, il termine in modo provvisorio, alla guisa di una specie di indicazione, e non di definizione.
La mia tesi è che la Realtà/Mondo non è predicabile, ossia, non è un soggetto cui può essere attribuito un predicato; e non per l’inadeguatezza della logica predicativa aristotelica, come interpretata da Russell e Wittgenstein, e definita atomismo logico, su cui torneremo, analizzando una celebre proposizione di quest’ultimo, la 1.21 del Tractatus (Una cosa può accadere o non accadere e tutto il resto restare uguale).
Per poter attribuire predicati a Realtà/Mondo, occorrerebbe l’atto (predicatorio) di un ente esterno ad essa, ma tale ente non può esistere, giacché “per definizione” la Realtà/Mondo è la totalità di tutti gli enti. Ma come si può definire ciò di cui non si può predicare, atteso che predicare significa, precisamente, definire qualità, condizioni, processi, attività, di un soggetto? Ne consegue che, se (sottolineando se) la sola modalità di conoscenza è quella dianoica, distintiva, definente, o denotante (per usare il lessico di Russell), e il solo mezzo quello linguistico, allora la Realtà/Mondo è inconoscibile.
Ora, è evidente che questo argomento (paragrafo precedente) non può essere esterno alla Realtà/Mondo, giacché nulla può porsi fuori da essa e, ciò nondimeno, esso nega la conoscibilità di ciò di cui è parte. In quello che segue, cercherò, se non di dimostrare, almeno di discutere, che l’argomento proposto non è un paradosso e neppure un’antinomia.
Dato che da qualche parte dobbiamo partire, mi è parsa buona cosa principiare con l’incipit di uno dei testi più noti e citati del secolo scorso. Il “Tractatus” di Wittgenstein, esattamente le prime due proposizioni, quelle fondanti. Ho scelto Wittgenstein perché il suo pensiero è considerato uno snodo fondamentale nella filosofia della Scienza, e attorno ad esso sono sorte le dispute più accese tra verificazionisti e falsificazionisti. Ovviamente, non posso passare in rassegna tutto il pensiero del viennese, ma solo quella piccola finestrella che attiene al mio discorso.
“Il mondo è tutto ciò che accade”.
“Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose”.
Voi davvero capite di che parla Wittgenstein? Non passate oltre, prima di esservi chiesti se davvero trovare un senso in queste due proposizioni.
Cerchiamo il significato di “accadere” nel solo posto in cui i parlanti hanno convenuto depositare i significati, il dizionario. Fidiamoci e consultiamo.
Accadere = succedere, capitare, avvenire, occorrere, intervenire, sopravvenire, sopraggiungere, verificarsi, darsi il caso.
Quindi, accadere = succedere, ecc… Uhm … per capirci meglio cerchiamo succedere (così ci togliamo ogni scrupolo). Consultiamo.
Succedere = accadere, capitare, avvenire, verificarsi.
Sarà un caso, e allora proviamo con “avvenire”. Cerchiamo avvenire, troviamo che significa accadere, succedere.
Ah! Dunque, accadere è sinonimo di succedere, e succedere di accadere; avvenire è sinonimo di entrambi i precedenti. Come dire, cerchiamo il significato di A, e tutto ciò che fanno i dizionari è garantirci che A significa B, C, ecc… i quali, a loro volta, significano A. Potere provare con qualsiasi termine usato dall’inizio dei tempi, il risultato è lo stesso. Il dizionario è circolare! Può essere utile, e lo è, dal punto di vita convenzionale (se io chiamo pera una bicicletta, sono io che sbaglio, rispetto a chi chiama biciletta una bicicletta); ma abbiamo appena visto che la semantica del parlato non si trova nei sui termini. E allora dove, visto che con un po’ di buona volontà ci capiamo? Voglio dire questo: noi ci capiamo adeguatamente, malgrado non esiste alcun modo certo di definizione semantica; giacché il processo definitorio è circolare. Accadere = succedere = capitare; e quindi succedere = accadere = capitare, ecc… non rendono alcuna semantica; tutt’al più, queste formule (A = B = C) risultano vere, per via della proprietà riflessiva dell’uguaglianza aritmetica; ma la matematica non dà semantica. E dunque, quello che è forse il testo più celebre di colui che è da molti considerato il massimo pensatore del secolo scorso fonda su un enunciato che definisce senza definire.
Se si connettono le due proposizioni di Wittgenstein, ne otteniamo una terza: “Il Mondo/Realtà è il sussistere di stati di cose”. Il “sussistere stati di cose”, equivale a (significa) l’avere quelle cose un’esistenza effettiva, reale; giacché “sussistere”, da sub e sistere”, nel linguaggio filosofico, vuol dire avere una realtà propria, indipendentemente da un soggetto cosciente e pensante. Bene, ma chi ci assicura che le cose stanno così, oltre alla parola di Wittgenstein? I filosofi dovrebbero dare delle dimostrazioni, non chiedere atti di fede. Il filosofo viennese pone come perentoria premessa del suo pensiero (dunque come assioma) una specie di oggettivismo assoluto, che potrebbe magari essere vero o falso, ma solo a seguito di una dimostrazione; mentre, posto come assioma, configura un diallele, ossia una petizione di principio, ossia una fallacia logica. Per tacere di un’altra assurdità. Poniamo pure che la Realtà/Mondo sia ciò che dichiara il viennese, ossia il sussistere di stati di cose (ciò di cui si occuperebbe la Scienza) del tutto indipendenti da un soggetto che enuncia “Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose”, (se così) da dove salta fuori quest’enunciato? Stando a Wittgenstein, esso non potrebbe essere dato, giacché i soggetti non fanno parte del solo mondo che ha realtà propria, gli “stati di cose”. Dunque, avremmo un enunciato SUL Mondo/Realtà, in assenza di un soggetto che lo ha prodotto.
Perché si arriva a questa assurdità? La ragione è semplice: occorre creare l’universo come lo immagina la Scienza, un universo oggettivo, “sussistente”, indipendentemente e autonomamente da un soggetto che di questo universo sia cosciente e ne predichi. Ovviamente, già solo per la ragione addotta, un universo, una Realtà/Mondo del genere non può esistere; e questo, a monte di qualsivoglia susseguente diatriba epistemologica. C’è una ragione profonda per la ripulsa della mentalità scientifica (e generalmente moderna) per il soggetto; appena dietro la dimensione grammaticale e psicologica, esso rimanda al convitato di pietra che turba i sonni di ogni epistemologia materialista: la COSCIENZA. Di questo punto specifico si parlò, tempo addietro, in un bel dibattito col prof. Masiero.
Sintetizzo al massimo, magari troppo: la coscienza gode di extraterritorialità logica, giacché non è oggettivabile; non è un ente, né alcunché di fenomenologico; è essenzialmente apofatica, la modalità predicativa annaspa per l’inadeguatezza del linguaggio, che serve a definire cose e processi. La coscienza non è una cosa né un processo; se proprio se ne vuole predicare in guisa catafatica, il modo meno imperfetto, forse, è accostarla alla soggettività pura. Ma la Scienza (o forse certa Scienza) sta alla soggettività come Dracula all’aglio; anche se, il soggetto cacciato dalla porta è rientrato dalla finestra con la quantistica.
1.21 del Tractatus: «Una cosa può accadere o non accadere e tutto il resto restare uguale». Ecco, questa proposizione, comunemente addotta come modello di atomismo logico è completamente falsa. E’ difatti impossibile che il minimo cambiamento nello stato di un sistema non abbia ripercussioni su ciascuno degli elementi del sistema stesso. Lo capì Turing: «Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza.» (Computing Machinery and Intelligence). Lo avevano capito millenni prima i taoisti e i buddisti, mentre, per quanto ne so, il concetto di “interconnessione universale” fu matematizzato per la prima volta da Lorenz, con la formalizzazione di equazioni differenziali a bassa dimensionalità, definite “attrattori di Lorenz”. Ma sulle date potrei sbagliare.
Quello che qui conta è che l’atomismo logico di Russell e Wittgenstein, che è uno dei fondamenti dell’epistemologia scientifica successiva, pur se utile per superare certe falle della logica predicativa classica (che in taluni casi, ad esempio, attribuiva, erroneamente, a un soggetto proprietà inesistenti, come nei comparativi, sovrapponendo la forma grammaticale di un enunciato alla forma logica), nella sua pretesa di giungere al limite estremo di riduzione dell’universo linguistico, e creare una base certa e ferma per il linguaggio scientifico, approda a falsità come quella appena segnalata. Se una cosa accade, dato che ogni singola cosa esiste in quanto relativa ad ogni singola altra cosa, determina un mutamento irreversibile nella totalità della rete di relazioni. Il che confuta l’ontologia del riduzionismo o atomismo logico; lasciandole, comunque, i meriti che le spettano (il primo dei quali è l’aver evidenziato i limiti della logica predicativa, ed aver proposto sviluppi che li superassero).
Questo ci dovrebbe insegnare che linguaggio e logica sono come quelle coperte che, se tirate da una parte, ne lasciano scoperta un’altra. Se tirate troppo si strappano. La conoscenza del mondo non potrà mai essere soddisfacente per tramite di questi due strumenti; il linguaggio è un’astrazione simbolica, e la logica è duale. La Realtà/Mondo, qualsiasi cosa sia, sfugge alla presa dell’uno e dell’altro. Chi pensa che linguaggio, logica e Scienza, spiegheranno il mondo al solo dar loro tempo, semplicemente, non sa far di conto. E poi, che significa “spiegare”? In realtà la vera accezione di “spiegare” utilizzata in Scienza e soprattutto in filosofia è quella resa dal transitivo pronominale, ossia, “comprendere”, “cogliere”. Soprattutto il secondo termine è importante, ed è il più prossimo, nella nostra lingua, a quello che considero il termine più adatto (a mia conoscenza) a rendere l’idea, mi riferisco all’inglese “insight”. “Insight” implica due dimensioni; una è la profondità; l’altra è la mancanza di (inter)media(zione). Nel nostro caso, i media sono linguaggio e logica; il primo astrae e separa, artificialmente, le forme (si ricordi il brano di Whorf di un mio precedente post) dal continuum del processo/mondo; la seconda rinchiude il mondo all’interno della categorizzazione binaria, che non è una proprietà intrinseca del Mondo, bensì una modalità della mente: quella discriminativa. Ma noi siamo vittime dell’illusione che se qualcosa non è nominabile, allora non esiste. Non comprendiamo che linguaggio (soprattutto verbale) e logica sono strumenti sociali deputati alla comunicazione tra menti; preziosi, se utilizzati nei loro legittimi limiti di pertinenza; ma distruttivi se, da mezzi, resi fini. Ipostatizzare questi strumenti, porta a quell’ipertrofia del mentale che è la cifra della mentalità, soprattutto, occidentale, della sua filosofia, e della sua Scienza. Letteralmente, noi viviamo dentro un’illusione collettiva; e si faccia attenzione che “illusione” non è sinonimo di nulla. L’illusione, è piuttosto un errore di attribuzione, resa possibile sia dall’erroneità delle premesse metafisiche sul Mondo, sia da uno stato cronico di coscienza ridotta; coscienza fagocitata, oggi più che mai, dall’interminabile carnevale che si chiama “comunicazione e intrattenimento”. Ciò di cui ho appena parlato viene reso da uno dei significati del termine sanscrito Maya.
E’ vero, quando la sera rientriamo a casa, la Scienza ci permette di non perdere tempo ad accendere una candela. Ci permette di rientrare più velocemente a casa. Ci permette di preparare più velocemente i pasti. Ma questo ha senso in una cultura che è drogata di fretta.
Sì, ma la Scienza guarisce da malattie che prima uccidevano! Vero! Parimenti vero che la Cultura che rende la Scienza un fenomeno sociale, uccide in altri modi, e soprattutto svuota dall’interno l’umano.
Sì, ma la Scienza spiega il Mondo! Falso! La Scienza rende del mondo ciò che è quantificabile e matematizzabile, e descrivibile secondo una modellizzazione standard. Ossia, “spiega” una parte infinitesimale di ciò che è percepibile e conoscibile.
Mi fermo, sennò non posterò mai queste righe.
La lettura frenetica di quanto ha scritto mi ha fatto ricordare un bellissimo racconto di Erri De Luca: Il peso della farfalla. Chi potrebbe mai pensare che una leggiadra farfalla che si posa sul dorso di un possente cervo possa determinare la morte dell’animale? Non voglio rovinare il piacere della lettura di questo piccolo capolavoro, ma quella inezia assieme a contingenze confluenti può davvero fare la differenza…
Gentile Francesco, il suo post è davvero molto interessante e coglie, a mio giudizio, molti aspetti essenziali della questione.
Una sola precisazione: quando Lei parla di Realtà/Mondo, l’espressione può benissimo essere accettata, a questo livello generale di considerazioni, ma potrebbe, se non chiarita, generare anche qualche equivoco, perché “Realtà” e “Mondo” non significano di per sè affatto la stessa cosa. Solo il primo termine può essere impiegato correttamente per indicare la vera Totalità, quella che gli indù chiamano “paramartha”, Suprema Realtà, mentre il secondo, indica ciò che di tale Totalità può essere manifestato in una molteplicità illusoriamente, cioè relativamente, separativa. Il “Mondo”, in altre parole, nella sua accezione più ampia, può indicare l’Esistenza Universale, o, se si vuole, la Manifestazione. Questa Manifestazione, d’altra parte, non è che un attributo (il chè, per inciso, non significa affatto un “predicato”, ovvero un’attribuzione logico-discorsiva, che, come Lei molto giustamente nota, non può essere mai appropriata per la Realtà, intesa nel senso più elevato) della stessa Totalità e questo giustifica l’associazione che Lei fa fra i due termini.
Precisato quanto sopra, concordo con quanto Lei afferma e aggiungo le seguenti osservazioni:
1. La configurazione del Tractatus logicus – philosophicus, che, a quanto sembra, lo stesso Wittgenstein abbandonò molto presto, esprime molto bene la peculiare visione del Mondo dell’uomo moderno.
1.1. Innanzitutto, l’atomismo logico è chiara espressione dell’idea che le cose siano enti finiti assoluti e separati. Questa visione delle entità finite come originarie ed assolute è frutto di un’operazione mentale di astrazione separativa che è del tutto peculiare dell’uomo occidentale, a partire dal 1500-1600. Agli inizi del ‘900, l’antropologo Alexandr Lurija, notava, ad es., come essa fosse completamente assente nel pensiero comune delle popolazioni dell’Asia centrale. Uno studio accurato del pensiero medioevale mostra come essa mancasse del tutto anche in Occidente, almeno fino al XII sec. E’ solo alla fine del secolo successivo e, soprattutto, a partire dal periodo che va dagli ultimi anni del 1200 e la prima metà del ‘300 che, da Duns Scoto a Occam, essa incomincia ad emergere con una certa nettezza.
1.2. L’astrazione separativa come operazione è frutto non di conoscenza, ma del suo contrario, dell’ignoranza intesa, non come mancanza di informazione, ma come condizione ontologica, quella che, sempre in ambito indù, viene definita “tamas”. Questà oscurità o potenza di negazione origina immediatamente una “volontà”, cioè il manifestarsi di una possibilità relativa, che si pretende anteriore e superiore all’Essere. Si tratta di quella che più tardi Nietzsche chiamerà “Wille zur Macht”, volontà di potenza, ma che il medioevo cristiano conosceva già con un’espressione simile, “propria voluntas”. Nell’Islam essa è denominata di solito tadbir, che significa letteralmente “proiezione”. Anche Sartre coglie intuitivamente questo elemento quando dice che “l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio” (L’Etre et le Néant, Parigi 1943, p. 653). La volontà di potenza produce l’illusione di un “individuo” cioè di una (pseudo)realtà finita che si pretende assoluta ed ultima (cioè indivisibile). L’Unità, infatti, è un altro volto dell’Assolutezza ed è attributo esclusivo dell’Essere puro (esse et unum convertuntur, dicevano i medioevali), così come la Non-dualità lo è della Realtà Suprema. L’individualità può legittimamente avere solo “un’ unità relativa”, il chè è come dire “funzionale”, proprio in quanto rappresentante simbolica dell’Essere, a cui “immagine e somiglianza” è costituita. Nel medioevo, “individuum” non significava affatto l’uomo che veniva piuttosto tradotto con “homo” o “persona”, ma la una particolare classe, la “species individua” ( ἄτομον εἶδος) quella che non era più necessario od opportuno suddividere ulteriormente nell’ambito di un certo livello di considerazioni o di discorso. In questo senso, l’individuum era una classe di “accidentia” (cfr: Odone di Cambrai, De peccato originali libri tres, II, PL 160, 1079 A-B: ” individuum est propter collectionem accidentium”). Per dirla con l’ermetista cristiano Johannes Gichtel, l’uomo è una “costellazione”, anzi una “triplice costellazione” (Theosopphia practica, I.7.), oppure, come dicono i buddisti, un insieme di khandas (aggregati, classi, insiemi).
1.3. Nel momentoo in cui l’individualità pretende di essere assoluta e pertanto indivisibile, essa deve perciò astrarsi e separarsi dal Mondo e divenire un’entità chiusa ed indivisibile (res cogitans, monade, atomo). Proprio perché nella realtà le cose stanno esattamente all’opposto, questa operazione è a sua volta unica per l’individualità ed il Mondo di cui fa parte e comporta, indissolubilmente, la proiezione di questa stessa idea su tutte le cose che divengono a propria voltà entità pretese atomiche e separate, cioè, letteralmente “ab-solutae”.
1.4. La deviazione della prassi cognitiva sperimentale in scientismo (quello che è propriamente la psedoscienza dei moderni) avviene proprio in ragione della pretsa di conoscere i fenomeni isolandoli da “tutto il resto”. Questo avviene sia nello studio che nella successiva applicazione: il laboratorio e la macchina sono le due forme tipiche in cui questa “separazione dal Mondo” si manifesta, rispettivamente nell’uno e nell’altra. Quanto al laboratorio i cui attributi sono l’isolamento e la sterilità, la cosa mi sembra sufficientemente evidente. Per la macchina, occorre considerare che il suo principio di funzionamento consiste in uno “spazio di isolamento” nella quale, attraverso l’applicazione di una “barriera” o di una forza di impedimento, determinati processi naturali vengono separati dal loro flusso normale e posti in uno stato di “sospensione”, producendo e canalizzando l’energia che ne risulta. Si tratti dello scappamento di un orologio, della camera di scoppio di un motore (o di un fucile), della camera oscura di un apparecchio fotografico o di una diga che impedisce il flusso di un fiume, il principio è sempre il medesimo. E’ anzi perfettamente legittimo sostenere, che l’intero mondo moderno globalizzato, sia una gigantesca “camera di separazione” dal Mondo che produce una quantità immensa di energia, canalizzata a sua volta per mantenere in piedi l’intera impalcatura di strutture che costituiscono il campo di proiezione del mondo artificiale di illusione, in cui vive l’uomo moderno di questo tempo.
mi scuso per qualche refuso nella scrittura del testo qui sopra “prtesa”, Theosopphia”, ecc. che non penso valgano la pena di ripostarlo.
Per Giuseppe: non ho letto il racconto che però ricercherò perché mi sembra interessante. Ad occhio, mia pare possibile che riprenda (almeno come suggestione di partenza) i motivi dell’interconnessione dei sistemi dinamici non lineari, argomento che potrebbe essere un altro capitolo del nostro discorso.
Gentile Anonimo, devo a lei e a tutti una scusa e un’importante rettifica… Nella mia memoria corta ho trasmutato la trama del racconto in oggetto (letto oltre 10 anni fa), creando una trama alternativa. C’entra sempre la farfalla e il suo peso… E la morte che arriva a causa del leggiadro lepidottero. Scusate tutti.
Ottimo commento, gentile Anonimo, avrei poco da aggiungere, giacché vedo che concordiamo sulla tesi di fondo. Ho inoltre molto apprezzato la sua breve e precisa incursione nella filosofia medioevale. Mi permetto di portare alla sua attenzione, in assenza del minimo intento polemico, due piccoli appunti.
1°, per quanto mi permettono le reminiscenze del mio lessico di base sanscrito (per carità, purtroppo non parlo questa meravigliosa lingua; ma ne appresi circa 150 termini ai tempi dei miei studi sull’Induismo) non mi pare che “Paramartha” voglia dire “Realtà Suprema”, quanto piuttosto (più o meno) “conoscenza spirituale nella sua totalità”, oppure, più letterale, “comprensione al di sopra di ogni cosa” (parama + artha, contraendo la a). “Realtà Suprema”, in sanscrito, può essere reso, soprattutto, con due termini: Nirguna Brahman, e Suniata. Ho sempre scelto il secondo, giacché il primo è una specie di ossimoro; giacché, sia pure apofaticamente, qualifica ciò che dovrebbe non qualificare. Il secondo, invece, e di una purezza e nudità assoluta. (Per chi fosse digiuno di sanscrito, “Nirguna Brahman” vuol dire Realtà-Suprema non qualificata; “Suniata” vuol dire Vuoto, nel senso di completa assenza di determinazioni).
2°, in ogni caso, io non mi riferivo a questo piano metacosmico, ma, vertendo il nostro discorso sull’aspetto fenomenologico, con Realtà-Mondo avevo in mente il concetto espresso dal greco Kosmos, specificamente sotto l’aspetto facente capo al verbo gínomai; ma reso nel modo migliore dal sanscrito samsara.
Ora, è cosa certa che le lingue occidentali moderne sono le meno adatte ad esprimere concetti di ordine metafisico, ma se si pretende di discorrere attorno alla Verità, di tali termini non se ne può fare a meno.
In ogni caso, dibattiti del genere, nella mia modesta opinione, sono importanti, e, per quanto ne so, rarissimi da trovare oggi nel web. Di tanto in tanto leggo siti di filosofia, che trovo, generalmente, di una pedanteria prodigiosa.
E’ un peccato che questo materiale rimanga sparso; mi è accaduto di pensare che sarebbe certamente buona cosa raccogliere discussioni del genere e sistemarle in una forma organica; ne verrebbe fuori materiale per un saggio di qualità. Purtroppo, io sarei l’ultima persona qualificata per un lavoro del genere, mi difetterebbe la mentalità sistematica.
Gentile Francesco, non si faccia scrupoli di formularmi tutte le osservazioni critiche o obiezioni che ritiene opportune: sono senz’altro bene accette ed anzi costituiscono il sale di ogni discussione, e chi non fosse disposto ad accettarle di buon grado, farebbe meglio a non iniziare a discutere con nessuno.
Riguardo al merito:
ad 1) Le riproduco qui di seguito i passi di alcuni dizionari di sanscrito, avrei voluto farLe avere direttamente l’estrazione del pdf ma non so come inserire un’immagine:
M.A. Monier Williams, A Sanskrit – English Dictionary, Oxford 1872: Paramartha (“ma- ar”), as, m. the highest or most sublime truth, the whole truth, real truth, reality, truth.
Carl Cappeller, A Sanskrit – English Dictionary , Londra, Boston e Strasburgo, 1891: Paramartha, m, the highest or whole truth, reality.
Leumann Monier Cappeller, A Sanskrit English Dictionary, Oxford 1899: Paramartha, m. the highest or whole truth.
Artha, del resto, significa propriamente “oggetto”, “realtà”
Peraltro, quanto Lei dice riguardo al possibile significato di “conoscenza spirituale nella sua totalità”, non è affatto errato, ma si tratta di un significato derivato ed ovvio per la mentalità indù in quanto la Conoscenza, quella vera, è la realtà più profonda di ogni cosa, non avendo più alcun senso, a questo livello, parlare di soggettivo od oggettivo.
ad 2) Prendo atto di quanto precisa riguardo al suo intento, ma, allora, il Suo discorso è un po’ meno preciso perché alcune delle cose che Lei dice si applicano piuttosto alla Realtà presa nella Sua Totalità e non alla Manifestazione.
Certo, cortese Anonimo, il sale del discutere è sapido proprio quando c’è qualcosa su cui farlo. Essendo questo il nostro primo punto di dissenso, ho solo tenuto a sottolineare precisare la mancanza di intento polemico da parte mia.
Venendo al punto, generalmente, quando so per certo di sapere qualcosa, di padroneggiare adeguatamente una materia, non mi ritiro dalla discussione. Come ho premesso, questo non è il caso del sanscrito; anche se credo di avere una buona, o almeno discreta, conoscenza del sanscrito upanishadico e vedico; i cui termini chiave, sono, appunto, circa 150. Questa conoscenza non mi è data soltanto dallo studio su dizionari o testi con annesse tavole di comparazione lessicale; ma soprattutto dagli scambi diretti con eminenti personalità della cultura indiana. Il pandit di cui parlai in un mio articolo è una di queste. Il mio metodo, per ciascuno dei termini di questo mio piccolo dizionario, fu di chiedere all’interlocutore di rendere sempre la terminologia sanscrita in inglese, e magari accompagnarla, ove necessario, da un commento. La cosa fu possibile solo fino ad un certo punto, proprio per la difficoltà da me già accennata in precedenza: la povertà lessicale delle lingue occidentali riguardo ai concetti metafisici.
Alcuni termini sanscriti, e “Artha” è fra questi, assumono significati diversi sia a seconda del contesto, sia a seconda del morfema che si aggiunge al semantema; vuoi come suffisso che come prefisso. Come ripeto, io sono molto lontano dal possedere, in questo campo, un’autorità tale da poter dire “è così non è così”. Tuttavia, scopo dei dizionari è deconstestualizzare, e offrire di ciascun termine il significato più preciso e generale. Se i dizionari dovessero contestualizzare, finirebbero per pesare molto più di tutti i pianeti conosciuti.
Posto ciò, anche se di tempo ne è passato, ricordo bene che non ho mai sentito utilizzare il termine “Paramartha” per designare il concetto Realtà Suprema; mentre, senza eccezione, esso veniva reso con Nirguna Brahman, o Sunyata. A proposito di “Sunyata”, a scanso equivoci, è meglio chiarire che pur se il termine è sanscrito, la sua collocazione è prettamente di area buddista; e, ciò non dimeno, il significato dei due termini è identico; tanto che, per la ragione addotta nello scorso post, gli indù dotti (ed infatti è da loro che ho appreso questo), lo usano come sinonimo di Nirguna Brahman. Faccio rilevare che un advatin puro come Gaudapada, in guisa piuttosto provocatoria e iconoclasta (se lo poteva permettere) disse che un vero buddista e un vero advatin sono nomi diversi per la stessa cosa.
Su questo punto, qui arrivo; per tutto il resto ringrazio chi mi insegna.
Circa l’altra questione, gentile Anonimo, mi tocca invece insistere, giacché il mio modo di porre il tema è corretto e consistente, sia riguardo il piano prettamente metafisico, sia su quello cosmologico; essendo entrambi, vuoi pure secondo modalità del tutto diverse (sottolineo questo punto) delle totalità sciolte da ogni vincolo. So bene, gentile Anonimo, che l’intera sfera cosmologica è priva di sussistenza; ma di questo possiamo parlare tra di noi, mentre io intendevo riferirmi esclusivamente a ciò che è di pertinenza della Scienza. Nel secondo caso (cosmologia), la mia è una formulazione logica, non metafisica; è ha una notevole analogia con la celebre antinomia di Russell “L’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso.”. Il che vuol dire che quell’insieme “totale” non è un insieme, oppure, se lo è, non se ne può parlare; ma se i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo (secondo il viennese, molto amico di Russell), allora quell’insieme è sia il mondo che l’extra mondo.
Gentile interlocutore, potrei citarLe diversi contesti in cui quel significato, che è il significato primario del termine, compare. Bastino gli esempi del titolo dell’opera di Abhinavagupta, Paramarthasara, oppure il Vivekachudamani, di Shankara, v. 159: “E’ l’uomo ignorante che identifica se stesso con una massa di pelle, carne, grasso ossa e , mentre l’uomo che è in grado di discriminare conosce il proprio Sè, la sola realtà (paramartha) che vi sia, come distinta dal corpo.” In ambito buddista, vi è il Dharmasamgraha, attribuito a Nagarjuna che usa proprio il termine composto paramarthasunyata per indicare la Realtà Ultima.
Quanto a Brahma Nirguna, è chiaro che trattandosi del Principio supremo, si identifica con paramartha, ma il significato immediato dell’espressione è ovviamente Brahma non qualificato.
Riguardo al secondo punto, sono d’accordo con la conseguenza (la prima) che trae dal paradosso di Russel, ma Le chiederei di riflettere sul fatto che “non essere un insieme” si applica sicuramente a molte cose che possono però essere oggetto di predicazione. Ad es., uno stato informale (sovraindividuale) che esprime una molteplicità non quantitativa, in nessun modo può essere equiparato ad un insieme (neanche di un solo elemento o ad un insieme vuoto) per la buona ragione che in esso non è possibile distinguere fra contenente e contenuto, né porre rapporti di inclusione/esclusione, né esso può essere o avere un “elemento”. Ciò nonostante, esso è sicuramente soggetto a predicazione ed anche (almeno in un certo senso) a definizione.
Era unicamente rispetto a questo, che il Suo discorso che richiamava la Totalità come non passibile di definizione, né di predicazione (nirguna, direbbero gli indù), mi sembrava appropriato rispetto alla Totalità metafisica, mentre mi sembra non applicabile rispetto ad una diversa totalità relativa.
Qualora, invece, Lei volesse soltanto sostenere che, al di fuori della particolare condizione dello stato di esistenza in cui ci troviamo, non si possono tout court applicare i predicabili e le categorie aristoteliche, mi troverebbe ovviamente d’accordo, perché è ovvio che queste cose trovano applicazione in senso letterale solo alle condizioni proprie dell’esistenza umana.
L’autorità ultima su questioni lessicali non è nella disponibilità dei parlanti. I parlanti sono legittimati a discutere, e qui lo stiamo facendo, su tali questioni, ma ove dovessero sorgere disaccordi, l’opinione dei dibattenti ha l’obbligo di adeguarsi all’autorità del dizionario (che, appunto, è il luogo in cui una comunità ha convenuto di depositare la semantica dei suoi termini).
Ricordo, al fine di non divagare, qual è l’oggetto del presente dibattito: non stiamo discutendo di ermeneutica, materia per sua natura complessa, che potrebbe dar adito a un discutere tanto articolato, quanto interminabile. Qui non si discute dell’interpretazione di un aspetto, per quanto estremamente circoscritto, delle Dottrine Indù. Qui, molto più semplicemente, si sta discutendo di quale sia, relativamente ad un concetto, l’unità autonoma di un lessico (quello sanscrito) che definisca il significato di quel preciso concetto. Questo è il punto, e nessun altro. La questione, se si capisce qual è, è davvero semplice, giacché la soluzione – mentre può o non trovarsi negli argomenti qui dibattuti – di sicuro si trova nel dizionario sanscrito. Questa soluzione, definitiva, ce la darà, appunto, il dizionario, ma prima vorrei (tornare a) precisare, anche se ne ho parlato in modo chiaro ed inequivocabile, quanto segue.
Il mio appunto sulla inadeguatezza di una locuzione usata (attenzione perché questo il punto) non concerneva il suo utilizzo contestuale, giacché, come ho scritto, non è l’uso di un singolo termine all’interno di un contesto a determinarne il significato; ma esattamente il contrario: è il significato del termine (codificato dal dizionario), il suo uso contestuale, a determinare l’allargamento dell’area semantica del contesto. Il breve paragrafo che segue è piuttosto tecnico, può essere ignorato da chi ha già le idee chiare sulla questione, diversamente meglio leggerlo con attenzione.
(Tale allargamento semantico può essere ottenuto in vari modi; i più comuni sono la suffissazione (aggiunta di un suffisso), e la prefissazione (aggiunta di un prefisso); con queste due modalità si formano le parole derivate (da una parola base). Poi c’è la confissazione (utilizzata per la creazione di parole composte), con la differenza, rispetto ai primi due casi, che non esiste una parola base, modificata da suffisso o prefisso, ma entrambi i due termini, uniti, ne generano un terzo. semanticamente originale, ad esempio l’unione di “cassa” + “forte” = cassaforte, oppure tele-visione, ecc… In alcuni casi nel termine generato da confissazione è presente un termine radice, sul cui significato gravita quello del nuovo termine. In seguito ne troveremo uno).
Entro questi limiti e termini siamo nella piena legittimità lessicale, un buon dizionario sa rendere conto delle genesi linguistica dei termini, a partire dai lessemi, o unità lessicali atomiche.
Questa premessa tecnico-linguistica era necessaria per rendere chiaro quanto segue.
Tornando a noi, nel caso di “paramartha”, siamo in presenza di una parola composta per confissazione, con l’elisione della “a”, (qui colgo l’occasione per correggere una precedente imprecisione; non si tratta di un termine ottenuto da morfema e lessema, ma), precisamente dall’unione di un aggettivo e un sostantivo. L’aggettivo è “parama” il sostantivo è “artha”. Ora, non può esservi dubbio alcuno (giacché il significato dei termini lo stabilisce il dizionario sanscrito) che “parama” vuol, dire “assoluto”, “supremo” “il più alto”; e “artha” vuol dire “obiettivo, significato, interesse, scopo, oggetto su cui verte una premura”. Si noti che non esiste il minimo rapporto tra ciascuno dei significati di “artha” e “realtà”, né suprema, né altro. Da qui, per confissazione dei due termini, otteniamo, esattamente, quanto leggiamo nel dizionario sanscrito, che ciascuno può vedere nei link allegati. Non esiste alcuno di questi termini che abbia la minima parentela con “Realtà Suprema”. Il solo che vi avvicini è l’ottavo della lista, ma è un termine diverso, è “paramarthatA”, essendo “tA” un suffisso espansivo che allarga la semantica del termine radice, e che, IN OGNI CASO, non fa il minimo riferimento al concetto di “Realtà Suprema”, ma è uno dei tanti termini generici che significano “realtà”.
https://www.learnsanskrit.cc/index.php?mode=3&direct=se&script=hk&tran_input=artha (artha)
https://www.learnsanskrit.cc/index.php?mode=3&direct=se&script=hk&tran_input=paramartha (paramartha)
Questo è quanto decretano linguistica e lessico! E su questo piano, che è quello su cui ho svolto le mie considerazioni fin dall’inizio, non mi pare esistano strumenti che permettano di obiettare.
Nella lingua sanscrita, e nell’orizzonte induista, il solo termine auto-sussistente, e adeguato a esprimere il concetto “Realtà Suprema” è “Brahman”, termine cui è consentito premettere, giacché apofatico, l’aggettivo “nirguna”, formato dal prefisso negativo “nir” e dal sostantivo “guna”: “senza qualità”, “non predicabile”.
Ho anche scritto, ma probabilmente sono stato letto di fretta, o letto per nulla, che tutto quanto ho appena espresso sopra, non implica affatto che, all’interno di ogni ordine di comunicazione (sacro o profano che sia), una volta che un tema sia stato sufficientemente contestualizzato, non sia lecito rendere un concetto con modalità diverse da quelle codificate, a monte, dal dizionario. Lo si può fare e infatti lo si fa. Le citazioni di Anonimo di alcuni di questi casi, a proposito del termine “paramartha” lo provano; ma questo non vuol dire, AFFATTO, che questi termini, decontestualizzati, possano essere considerati sinonimi del termine radice. E questo, preminentemente, nell’ambito delle lingue sacre, che non permettono tante libertà lessicali. E’ questo l’errore che ho segnalato. Per essere ancora più preciso e specifico, e quindi riferendomi al nostro caso, la ragione per cui “paramartha” è stato talvolta usato come parafrasi di “Realtà Suprema”, consiste nell’uso di una metonimia, e quindi la sostituzione dello scopo (l’obiettivo più alto) con l’obiettivo stesso (la Realtà Suprema).
Di parafrasi, perifrasi, circollocuzioni, e altri atti locutori, per indicare “Brahman”, i testi sanscriti sono ricchissimi, non serve cercare “prove”. perché si sa che è così. Ma solo “Brahman” ha la legittimità e autonomia necessaria e sufficiente per rendere il concetto.
L’esempio della locuzione di Nagarjuna, sempre che si sia letto e compreso quanto ho esposto nella premessa linguistica, conferma, piuttosto che confutare, la mia tesi. Paramarthasunyata è termine composto con una triplice confissazione, il cui lemma radice è “sunyata”. Una delle prime cose che apprende chi ha appena un’infarinatura di sanscrito è la ricorrenza dell’ellissi del verbo essere, che, nei termini composti, è completa, non solo suggerita. In questo caso, “sunyata”, essendo il confisso radice, non prende alcuna desinenza, diversamente dal caso dell’espressione di Shankara, che esamineremo subito appresso. Composti come Paramarthasunyata sono frequentissimi in sanscrito, come in tedesco, dove i confissi possono arrivare anche a cinque. Paramarthasunyata, dunque, significa “vuotezza assoluta”. In molti casi, nel Maha Prajnaparamita Sastra, si dà per sottinteso il termine radice, e a indicare “vuotezza assoluta” rimane solo Paramartha; ma questi sono espedienti stilistici; giacché Paramartha, decontestualizzato, ed in assenza ad un riferimento al termine radice “sunyata” non potrebbe mai voler dire “vuotezza assoluta”.
Adesso analizziamo in caso del testo di Shankara:
“…oppure il Vivekachudamani, di Shankara, v. 159: “E’ l’uomo ignorante che identifica se stesso con una massa di pelle, carne, grasso ossa e , mentre l’uomo che è in grado di discriminare conosce il proprio Sè, la sola realtà (paramartha) che vi sia, come distinta dal corpo.”
Se vogliamo capire l’esatto significato del testo, occorre esaminare la traslitterazione dell’originale sanscrito, che prima è stato tradotto in inglese, e poi in italiano:
tvaṅmāṃsamedo’sthipurīṣarāśā
vahaṃmatiṃ mūḍhajanaḥ karoti |
vilakṣaṇaṃ vetti vicāraśīlo
nijasvarūpaṃ paramārtha bhūtam
L’oggetto del dibattere concerne gli ultimi due termini “paramārtha bhūtam” (non si faccia caso alla costruzione della frase che, come anche in latino e in tedesco, è diversa dall’italiano).
(Inglese)
It is the foolish man who identifies himself with a mass of skin, flesh, fat, bones and filth, while the man of discrimination knows his own Self, the only Reality that there is, as distinct from the body.
(Italiano)
E’ l’uomo ignorante che identifica se stesso con una massa di pelle, carne, grasso ossa e , mentre l’uomo che è in grado di discriminare conosce il proprio Sè, la sola realtà (paramartha) che vi sia, come distinta dal corpo.
Bene, per quanto ne so (ho anche consultato il dizionario sanscrito), bhūta è un sostantivo, uno dei cui significati principali, il solo che si adatta al contesto, è “Essere”, “Realtà”; mentre, come abbiamo visto già, paramartha (parama + artha) vuol dire “obiettivo/scopo supremo cui tendere”. Nel testo translitterato, si nota la desinenza “m” di bhūtam, che ne fa, per quanto la mia conoscenza della grammatica sanscrita sia scarsa, un caso accusativo. Il soggetto è certo, è paramartha, manca (come quasi sempre manca per elisione) il verbo, la copula, che è grammaticalmente imposta dal caso accusativo (chiunque abbia studiato latino sa che se c’è in accusativo ci deve essere un verbo, e se c’è un verbo ci deve essere un soggetto). Che ne è di tutto questo nella prima traduzione? Dove finisce il legame copulativo tra il soggetto e il complemento oggetto? E ancor meno il testo sanscrito viene reso nella traduzione dall’inglese, dove l’arbitrio del traduttore arriva a cambiare il soggetto col complemento oggetto; paramartha con bhūtam, ignorando del tutto il legame copulativo tra i due.
E quindi, rispettando la grammatica del testo originale, solo translitterato, formiamo un enunciato pienamente conforme alla dottrina di Shankara, questo: “lo scopo supremo cui tendere (è) la sola Realtà”.
Più chiaro di così, non credo che riuscirò mai ad essere. Ragione per la quale, lascio il campo aperto a chiunque creda di poter aggiungere qualcosa. Magari sbaglio, come sancritista non sono neppure un dilettante, se qualcuno mi corregge, con fatti e argomenti, come ho scritto altre volte, io ringrazio e rimango in debito. Mi sono fatta una piccola ripassata di sanscrito, e spero di aver recato un piccolo contributo. In ogni caso, non replicherò, con questo post considero l’argomento concluso.
P.s.
Dimenticavo. Proprio velocemente, quanto all’altra questione, davo per scontato che essendo il tema appena trattato la Scienza, non avrei mai potuto usare il termine “totalità” altro che in senso cosmologico; e, per giunta, con ovvio riferimento ai limiti entro cui la Scienza intende la cosmologia.
Gentile Francesco, il Suo discorso è molto interessante e complesso, ma, al termine della lettura Le dovrei formulare una sola domanda: come tradurrebbe, dall’inglese “highest or Whole Truth” che, nel secondo dei link che ha postato, compare come quarto significato di “paramartha”?
Per quanto sia per me cosa insolita tornare su una questione data per chiusa, tuttavia, considerato che discutere con lei, gentile Anonimo, si è dimostrato finora proficuo, faccio un’eccezione.
Senza esitare, la risposta alla sua domanda è “la più alta o onnicomprensiva Verità”.
Il dizionario riporta, correttamente, la definizione, giacché, senza dubbio, essa è di uso relativamente corrente in tutta la sterminata letteratura sacra Indù; ma io di questa possibilità avevo dato conto nel mio lungo post precedente. Nella stessa pagina del link da me allegato (il dizionario sanscrito) , Paramartha viene tradotto anche (salto l’inglese) “Conoscenza spirituale” e “Salute Suprema” ; ma “Conoscenza spirituale” in sanscrito si dice “Vydia” (oppure Jnana, con un significato leggermente diverso); mentre “Salute Suprema” è reso da “Moksha” (la salute ordinaria si dice svastha). E tuttavia, questi termini, seppur collegati a Paramartha attraverso le definizioni appena date, non possono affatto essere tra di loro commutati, ed essere usati l’uno come sinonimo dell’altro. Vydia non significa Moksha, ed entrambi, seppure facenti parte alla lontana della stessa area semantica, non significano Paramartha.
Paramartha può significare a.n.c.h.e. la più alta o onnicomprensiva Verità, certo; ma (nocciolo della questione), “la più alta o onnicomprensiva Verità” NON è sinonimo di Brahman. In sanscrito, e nella prospettiva induista, Brahman non ha sinonimi. Il solo altro termine sanscrito che illustra lo stesso concetto, però di area buddista, è Sunyata.
Per cercare di rendere nel modo più chiaro possibile la mia esposizione, mi è appena venuta in mente un’analogia con l’arabo coranico, nell’uso sufi, piuttosto che da madrasa.
Nello specifico, Paramartha è uno dei possibili “nomi” o attributi, con cui si può indicare o qualificare l’Assoluto; ma l’atto stesso di qualificare, seppure perfettamente legittimo, indica che ciò che si qualifica non può essere Brahman, ed è per tale, ovvia, ragione, che Paramartha, essendo una locuzione attributiva, non può essere sinonimo del soggetto di cui è attributo.
Paramartha trova un analogo quasi perfetto in due dei 99 Nomi (ossia Attributi) di Allah, almeno secondo la lessicografia sufi. Mi riferisco a “Al Mu’id” che significa sia “Scopo supremo verso cui tutti gli enti tendono” (esatto corrispettivo, letterale, di Paramartha), sia “Colui al quale tutto ritorna”.
Per venire al caso da lei citato, “la più alta o onnicomprensiva Verità”, trova corrispondenza nel 52° nome (54° in alcuni elenchi), Al Haqq Il Vero La Verità. Nell’ottica sufi, non v’è differenza tra Nome (attributo) e Presenza. Per ognuna di questa Presenze è implicito il superlativo relativo Akbar, usato con lo stesso valore dell’anselmiano “ciò di cui non può essere concepito il maggiore” (che a me appare identico al sanscrito “Parama”); e quindi, fuor di ellissi, Al Haqq, diventa: “La più suprema Verità concepibile”. Che differenza c’è con “la più alta o onnicomprensiva Verità”?
Eppure, nessun musulmano (figuriamoci un sufi!) si sognerebbe di equiparare un attributo con la Realtà cui questo attributo è riferito.
Nelle Futuhat Makkiyya, Muḥyi al-Din Ibn ‘Arabi, commentando l’Attributo, o Nome, o Presenza, o Stazione, Al Haqq, scrive: “La Verità, l’Essere, il Vero, la divina Realtà, il Reale, è il vero Essere (wujud)”; e questo è il caso perfettamente simmetrico di Paramartha, per “la più alta o onnicomprensiva Verità”.
Ciò non dimeno, chiunque usasse uno dei 99 Nomi come sinonimo di Allah, sarebbe condannato a morte per blasfemia.
Per concludere, stavolta davvero. Dire catafatico è dire relativo e condizionato. Sia i 99 Nomi (per l’arabo), sia tutte le locuzioni a partire da “parama” (per il sanscrito), ricadono a pieno titolo nella predicazione catafatica. L’Islam sapienziale chiude la partita col catafatico con la doppia negazione della prima Shahada:
“lā ʾilāha ʾillā -llāh”.
L’induismo la chiude con Brahman.
Comprendo la Sua prospettiva. In ogni caso, resta confermato che la traduzione di “paramartha” come “suprema realtà” è corretta, anche se l’aspetto che connota è inferiore a quello espresso dal termine Brahmah (nirguna). Credo che sia sufficiente ed anche per me la discussione può chiudersi così.
Mi faccia capire lei, gentile anonimo. Con questa sua chiusura siamo tornati all’origine della discussione sul significato del termine in oggetto che si conferma corretto come lei l’aveva posto? O, al contrario, è in ogni caso è solo forzatamente corretto? Dopo analisi profondissime e controdeduzioni, e per me povero ignorante della profonda materia osticissime (e appassionanti) analisi e controdeduzioni, è stato compiuto un cerchio perfetto, che in fondo dimostra che la discussione poteva risolversi in modo più diretto e, soprattutto, breve ? Grazie.
Come sempre avviene, la discussione ha permesso ad ognuno degli interlocutori di approfondire la visione da cui era partito. La mia traduzione è obiettivamente corretta, perché, come mi sembra riconosciuto da Francesco. essa rispecchia il significato proprio del termine, oggettivato nel dizionario. Nello stesso tempo, posso riconoscere che la sua istanza, quella, cioè, come credo di aver compreso, di riconoscere nella “qualificazione” di “realtà suprema” un elemento di relatività, perché, per dirla con i taoisti, il Tao di cui si può parlare non è il Tao, è giusta e condivisibile.