Sindrome di Down, aveva ragione Lejeune: curare, non seguire l’eugenetica

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Jerome Lejeune, lo scopritore della trisomia 21, sosteneva che si dovesse cercare una cura per la sindrome di Down e non ricorrere all’aborto eugenetico.

 

Oggi i fatti cominciano a dimostrare che aveva ragione.

 

 Se ne era parlato al primo Mendel Day di Jerome Lejeune, il genetista francese che nel 1958 individuò nella trisomia del cromosoma 21 la causa della sindrome di down. E riprendendo proprio le parole di Mario Gargantini riportate in un articolo di Leonetto troviamo il modo di agire del grande genetista:

  L’ intento dello scienziato fu sempre quello di guarire i suoi malati, così socievoli, così allegri, così fanciulleschi. «Se si riuscisse a scoprire come poter curare la trisomia 21», scrive la figlia Clara, «allora sì la strada sarebbe aperta per poter curare ogni altra malattia genetica».

Scoprire la prima aberrazione cromosomica è, nella mente di Lejeune, il primo passo per compiere l’opera del medico, che è, da sempre, quella di curare. Gargantini ricorda il pensiero di Lejeune per cui occorreva ricercare, indagare, scoprire perché c’erano persone che avevano bisogno di una cura che aspettavano.

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Curare la malattia, sempre, non eliminare il malato come vorrebbe il pensiero eugenetico, e negli anni’70 quando le sue ricerche avevano portato alla conoscenza delle cause della malattia, veniva varata in Francia la legge Peyret che apriva all’aborto nei casi di bambini portatori di handicap. Lejeune allora si dichiarò contrario all’aborto per i bambini Down,  e forse questo gli costò la mancata assegnazione del premio Nobel, come ricordato sempre nell’intervento di Gargantini:

Da cristiano, Lejeune sosteneva che si dovesse, finché non si riuscirà a guarirli, stare vicino ai malati, guardarli come si guarda ad un figlio di Dio, dargli il sostegno della società e non guardare loro come solamente ad un errore genetico, a materia biologica vivente su cui si può intervenire selezionando come si fa con fagioli e pomodori.

Lejeune ricordò un altro grande scienziato di cui si è accennato anche relativamente alla figura di L. Spallanzani, dicendo che in passato, i malati di rabbia venivano spesso uccisi e soffocati tra due materassi finché poi  Pasteur liberò l’umanità da quella malattia.

Cosciente di aver intrapreso una via pericolosa, difficile, gli venne negato il Nobel, sui muri di Francia apparvero scritte con insulti rivolti allo scienziato, gli furono attribuiti epiteti di pessimo gusto (anche ai malati di trisomia 21), l’ avanzamento di carriera gli fu bloccato, subì la radiazione dai congressi scientifici, congelamenti e sospensione di fondi e di finanziamenti per le sue ricerche.

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L’opposizione al credo eugenetico fu pagata a caro prezzo da Jerome Lejeune, ma adesso i fatti cominciano a dargli ragione: per la sindrome di Down si intravede una terapia.

Ne dà notizia Nature con una ricerca ripresa su Le Scienze con il titolo Sindrome di Down, come silenziare il cromosoma in più, in cui si comunica che si è trovato il modo di silenziare il cromosoma in più che porta alla sindrome di Down:

Il terzo cromosoma 21, responsabile della sindrome di Down, può essere silenziato usando un gene a RNA, denominato XIST, che normalmente ha la funzione di inattivare uno dei due cromosomi X nell’embrione di sesso femminile.

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Un’idea brillante che sfrutta un meccanismo naturale che inattiva uno dei due cromosomi X della coppia 23 nella femmina e che in vitro ha silenziato il cromosoma in più dei malati di trisomia del cromosoma 21.

Jerome Lejeune aveva ragione, la strada per affrontare la sindrome di Down non era quella eugenetica.

Una notizia importante che cade proprio nei giorni in cui da un importante esponente della biologia come Edoardo Boncinelli è venuto un sostegno alle tecniche di eugenetica, come segnalato su CS in Darwinismo fa rima con eugenetica.

Valeva la pena rinunciare a un premio Nobel per sostenere la strada della cura contro quella della selezione artificiale eugenetica, e ancora oggi vale la pena essere controcorrente e sostenere che si deve curare la malattia, sempre.

Grazie Lejeune.

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Laureato in Biologia e in Farmacia, docente di scienze naturali Nel 2011 ha pubblicato "Inchiesta sul darwinismo", nel 2016 "L'ultimo uomo" e nel 2020 "Il Quarto Dominio".

12 commenti

  1. Pellegrino Russo on

    Dal canto mio, le persone con la sindrome di down non le considererei nemmeno malati, ché già questo, considerato che in realtà non si tratta di vera malattia, li rende oggetto di discriminazione. E forse anche da questo atteggiamento negativo che nasce quella forma di selezione in utero di cui sono crudelmente oggetto.
    Ne ho conosciuti, e sono teneri, veri amici per la pelle, quasi mai tristi, anzi ottimisti per natura.

    Mi chiedo anche se cercare di eliminare “artificialmente” questo difetto non sia in realtà anche esso una forma di eugenetica. Ditemi voi se sono vicino o lontano dal vero.

    • Buonasera e benvenuto Sig. Russo.

      Il suo intervento è uno di quelli che servono davvero a far riflettere con spunti anche inaspettati.

      Potrei essere d’accordo con lei sul fatto che la sindrome di Down sia una condizione che non è quella di una malattia come le altre, che si tratti di un discorso a parte.

      Ma riconosciuto questo aspetto devo subito aggiungere che se anche fosse malattia come altre ciò non dovrebbe essere in nessun caso motivo di discriminazione. E qui dobbiamo domandarci perché la condizione di malato dovrebbe portare alla discriminazione.
      Per me la risposta è semplice: è proprio un approccio eugenetico, a sua volta derivato da una visione competitiva darwinista, a far sì che la malattia venga percepita come fattore di vergogna e quindi di discriminazione.

      Sull’ultimo punto invece la risposta è semplicemente no.
      L’eliminazione del cromosoma soprannumerario non può essere considerata una forma di eugenetica in quanto l’essenza dell’eugenetica è l’eliminazione del malato, una forma di selezione artificiale quindi, non l’eliminazione del sintomo o della malattia.
      Silenziare il terzo cromosoma 21 non comportando l’eliminazione del portatore dell’anomalia non può in nessun caso essere dunque considerata eugenetica.

      • Pellegrino Russo on

        La ringrazio, Pennetta, della pronta risposta e della chiara esposizione del suo punto di vista.
        Mi chiedo e le chiedo se in effetti “silenziare” il cromosoma 21 sia “solo” la cura per la persona down, e allora è un passo avanti eccezionale della scienza medica, o presupponga piuttosto il “cambio” (di personalità e non so di che altro) della persona che subisce questo intervento, che perde la sua identità.
        Non so se ho reso in modo migliore l’idea del perché mi chiedevo se poteva essere anche questa una forma di eugenetica (per “ottenere” persone ritenute più giuste dal punto di vista biologico di altre).

        • Sig. Russo, ancora una volta la domanda che lei pone è pertinente e richiede un’attenta riflessione.

          Intanto direi che una risposta definitiva potrà venire solo dopo aver saputo se la cura sarà possibile anche sugli adulti o se sarà invece praticabile unicamente in fase di sviluppo embrionale o fetale.

          In ogni caso il mio personalissimo parere, che dovrebbe ovviamente confrontarsi con l’esperienza di chi conosce meglio la realtà delle persone Down, è che non si tratti tanto di cambiare personalità quanto di poter sviluppare pienamente quell’unica personalità che ciascuno possiede e che può essere più o meno maturata ed espressa.

          Si tratterebbe insomma della stessa situazione di un bambino che cresce, non è che nella personalità infantile ci sia qualcosa che non va, è naturale però che nel corso della vita si sperimentino consapevolezza e aspetti di maturazione diversi.

          In questo caso intervenendo saremmo ancora fuori dal rischio eugenetico.

          • Pellegrino Russo on

            In attesa di capire gli importanti aspetti anche da lei sottolineati, mi sento di dire che la questione è davvero delicata e ancora in divenire, come avevo intuito.

            L’intervento embrionale o fetale è pur sempre, a mio modesto avviso, una manipolazione che rischia di cambiare le “carte in tavola”, senza che l’interessato sia consultato. Ma credo anche che non abbiamo elementi che possano sostenere questo mio timore.

            Lascio tempo alla scienza medica di approfondire, però non so se mi sentirei di intervenire su un mio figlio (a livello di embrione o feto) in quelle condizioni.

          • Mah sig.Russo..intanto si dia un’occhiatina qua:

            http://www.ospedalebambinogesu.it/portale2008/Default.aspx?IdItem=2024

            che è meglio..
            Già qualche anno fa si ottennero risultati da esperimenti su topi iniettando due proteine inibite( NAP e SAL) nei down,intervenendo sul ritardo mentale.
            Fra i Down ce ne sono di più fortunati,che hanno un’entità relativamente debole dei fenomeni associati alla sindrome riuscendo a vivere una certa vita.
            Infatti la sindrome comporta insorgenza di ritardo mentale e disabilità cognitive varie,difetti cardiaci,cataratta,disturbi muscolo-scheletrici,alterazione nel sistema immunitario etc etc..in molti casi purtroppo in modi molto seri.

            Già Lejeune comprese l’importanza che avrebbe potuto avere l’intervento rapido durante lo sviluppo embrionale.E certo Lejeune era una delle persone che è stata più vicino ai Down.

            Lei Russo,farà certamente bene a rivedere alcune cose così come a comprendere cosa significhi eugenetica perché veramente lo ignora,o comunque ha una certa confusione riguardo anche a questo concetto.

  2. Pellegrino Russo on

    Caro Leonetto,

    accolgo il suo consiglio e cerco di rimediare alla confusione in materia che evidentemente ho e ho palesato. Approfondirò senz’altro la questione che, com’è convinto anche Pennetta, si pone fuori dal rischio eugenetica.
    La mia unica esperienza è con un uomo down di oltre 50 anni, amico mio, che vive relativamente bene e oserei dire anche felicemente, e che non vedrei in modo diverso di come è, ma probabilmente, come lei fa notare, si tratta di un caso più fortunato e i down in media hanno problemi anche gravi.

    • Direi, Russo, che eugenetica o non eugenetica, quel che conta è far stare bene la gente. E se per questo maledetto difetto c’è una correzione ben venga.
      Il dawn non sceglie nemmeno di essere dawn, nessuno gliel’ha chiesto se era d’accordo.

  3. Ricevo una segnalazione da Anna Fusina di una sua intervista al prof. Pierluigi Strippoli dell’Università di Bologna.

    Ritengo importante al fine di una migliore trattazione dell’argomento riportare oltre al link anche l’intero testo:

    Sindrome di Down: ricercare per curare. La testimonianza del Prof. Pierluigi Strippoli

    “Sindrome di Down: ricercare per curare.
    La testimonianza del Prof. Pierluigi Strippoli

    di Anna Fusina

    Pierluigi Strippoli è professore associato di Biologia Applicata e Responsabile del Laboratorio di Genomica del Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna.
    E’ un ricercatore che si ispira all’opera scientifica di Jérôme Lejeune, il genetista scopritore della Sindrome di Down, per tentare di svilupparne le intuizioni con i moderni strumenti della genomica.

    Prof. Strippoli, in che modo l’opera di Jérôme Lejeune ha incrociato la sua vita e cosa è nato da questo incontro?

    Ho iniziato a fare ricerca sul cromosoma 21 umano nel 1998, poco dopo il mio ingresso in Università nel ruolo di Ricercatore.
    Iniziò allora la mia collaborazione con la Professoressa Maria Zannotti, che era stata allieva del Prof. Jérôme Lejeune a Parigi nel 1967 e nel 1969, e aveva portato a Bologna questo tema di ricerca.
    In un primo tempo esitavo ad occuparmi di questo ambito, ero convinto che fosse già “sovraffollato”.
    Invece, con mio stupore, mi accorsi che i gruppi di ricerca che studiavano i meccanismi con cui il cromosoma 21 causa la sindrome di Down, dove è anormalmente presente in tre esemplari invece di due, erano molto pochi relativamente alla frequenza e alla importanza di questa condizione genetica.
    In effetti, pur con risorse molto ridotte, fu nel nostro Laboratorio dell’allora Dipartimento di Istologia, Embriologia e Biologia Applicata che una collega del mio gruppo, Lorenza Vitale, poté identificare uno dei geni del cromosoma 21 umano passato inosservato nella mappa “completa” già pubblicata nel contesto del “Progetto Genoma”, un risultato seguito dalla pubblicazione di altri studi di genetica molecolare relativi allo stesso cromosoma.
    Tuttavia, negli ultimi anni, la difficoltà nel reperire fondi per i nostri progetti di ricerca e un certo scoraggiamento complessivo mi avevano allontanato di fatto dalla ricerca sulla sindrome di Down. In seguito al suggerimento fortuito di intervenire al congresso denominato “Lejeune Conference”, promosso a Parigi nel marzo 2011 dalla Fondazione Lejeune per incentivare la ricerca di una terapia della trisomia 21, ho potuto incontrare Ombretta Salvucci, ricercatrice a Washington e, attraverso di lei, la famiglia del Prof. Lejeune, venendo in contatto diretto con la storia di questo medico e genetista.
    Sebbene mi fosse noto il suo ruolo storico nella scoperta, pubblicata nel 1959, che la sindrome di Down è dovuta ad un cromosoma 21 in eccesso, quando sino ad allora si chiamavano in causa sifilide, alcolismo o persino immoralità dei genitori, non immaginavo la profondità delle sue intuizioni scientifiche sulle possibili vie da esplorare per cercare una cura, né mi era mai parso così chiaro che fosse ragionevole investire le proprie energie in questa impresa, per lui “meno difficile che spedire un uomo sulla luna”.
    Via via emergeva ai miei occhi un uomo di intelligenza ed umanità straordinarie, unito nel suo essere medico, pediatra, genetista, scienziato, marito e padre, uomo di fede (sono rimasto molto colpito dal fatto che sia in corso la sua causa di beatificazione).
    Al ritorno in aereo ho letto il piccolo splendido libro “La vita è una sfida”, la storia di Lejeune scritta dalla figlia Clara, rimanendone profondamente impressionato.

    Le conseguenze di questo incontro sono state molteplici, ad esempio: ho ripreso un atteggiamento di forte ipotesi positiva che le nostre competenze in Medicina, Genetica e Genomica, e Bioinformatica fossero proprio quelle necessarie a tentare di proseguire il lavoro di Lejeune, che fino all’ultimo lavorò per cercare di comprendere i meccanismi con cui il cromosoma 21 causa i sintomi, in vista di una cura; dopo molti anni passati in Laboratorio sono tornato in Clinica, su suggerimento diretto della Signora Birthe, moglie del Prof. Lejeune, dove, seguendo il pediatra Prof. Guido Cocchi all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, ho avuto molte nuove idee su come indirizzare le ricerche del nostro Laboratorio in modo più mirato, e allo stesso tempo ho constatato la commovente ricchezza umana e affettiva di questi bambini e dei loro genitori; ho osservato come il disturbo cognitivo sia meno grave di quello che si ritiene comunemente, il problema prevalente è quello di espressione verbale, che Lejeune attribuiva ad una “intossicazione cronica” delle sinapsi cerebrali causata da qualche prodotto del cromosoma in eccesso; ho infine lanciato con convinzione iniziative di raccolta di fondi per le nostre ricerche, riscontrando l’interesse inatteso di persone ed enti privati (per informazioni vedere link alla fine di pagina: http://apollo11.isto.unibo.it/).

    Qual è lo scopo delle sue ricerche?

    Lo scopo immediato è quello di produrre molteplici mappe strutturali e funzionali del cromosoma 21 umano, studiato sia in tessuti normali sia in cellule trisomiche, per identificare quali specifici geni siano “critici” per lo sviluppo dei sintomi.
    Credo che dalla generazione di queste mappe e soprattutto dalla loro sovrapposizione potranno venire molti spunti per i passi successivi, ossia chiarire almeno alcuni dei meccanismi molecolari con cui il cromosoma 21 in eccesso causa le manifestazioni della sindrome. Lo scopo finale è quello di arrivare a proporre interventi terapeutici mirati basati sulla interazione con le vie metaboliche presumilmente maggiormente responsabili dei sintomi.
    Un cruccio di Lejeune era proprio la difficoltà di indirizzare risorse e ricerche in questa direzione, data l’opinione prevalente nella comunità scientifica che fosse possibile “risolvere” il problema della trisomia 21 con la diagnosi prenatale e l’aborto selettivo.
    Al di là delle ovvie problematiche etiche implicate in questa visione, risulta evidente da una semplice analisi della letteratura scientifica che di fatto il prevalere di filoni di ricerca, e quindi di tempo, energie e risorse, indirizzati all’affinamento dei metodi di diagnosi prenatale si è associato di fatto ad un molto minore sforzo nella direzione della ricerca di una cura, che rimane il vero scopo della Medicina, come Lejeune sostenne nel suo memorabile discorso di accettazione del premio “William Allan” a San Francisco il 3 ottobre 1969.

    Qual è lo stato delle ricerche sulla diagnosi prenatale della sindrome di Down?

    Le ricerche sulla diagnosi prenatale hanno sinora avuto come esito concreto solo la possibilità dell’aborto selettivo di feti con sindrome di Down in caso di test positivo. L’uso di metodi invasivi, come la villocentesi e l’amniocentesi, porta ad una conoscenza anticipata della diagnosi che non dà vantaggi ai fini della salute del feto, al contrario è associato allo 0.6-0.7% di rischio aggiuntivo di aborto (conseguente alla manovra): in pratica un caso ogni 150 analisi circa, una possibilità concreta. E rimane il rischio, seppure molto basso, di errori diagnostici.
    Nuovissimi test di imminente diffusione possono invece permettere la diagnosi basandosi su un prelievo di sangue materno, che contiene comunque molecole di DNA fetali, senza i rischi connessi alle manovre invasive. Questi metodi aumenteranno probabilmente la richiesta di test diagnostici prenatali, che già oggi esitano in Europa nella scelta dell’aborto in circa il 90% dei casi in cui il test è risultato positivo per la diagnosi di trisomia 21.
    Non si può escludere che se in futuro diventerà possibile somministrare cure intrauterine a vantaggio dei feti con trisomia 21 tali metodi non invasivi potrebbero essere utili per individuare i feti da curare. Attualmente comunque non vi è questa possibilità.

    Può descrivere la sua attività di ricerca e lo spirito che la anima?

    Sostanzialmente abbiamo avviato dall’autunno 2012 tre progetti principali, entusiasti della possibilità di poter almeno tentare di portare un contributo alla prospettiva di un miglioramento concreto della disabilità intellettiva tipica della sindrome di Down.
    Il “Progetto Geni 21” è già in corso e si propone di realizzare mappe geniche di espressione orientate alla caratterizzazione dell’attività dei geni del cromosoma 21.
    Abbiamo ideato, realizzato e pubblicato un software di analisi bioinformatica molto potente, TRAM (Transcriptome Mapper), che ora stiamo utilizzando intensivamente per identificare i geni del cromosoma 21 maggiormente attivi nel cervello.
    Stiamo scrivendo un progetto parallelo più grande e di più largo respiro, “Progetto Genoma 21”, basato sullo studio delle cellule ottenibili con un prelievo di sangue dai bambini trisomici ed eventualmente dai loro genitori, per lo studio sistematico e mai sinora eseguito del genoma, del trascrittoma e del metiloma di ogni soggetto, associato alla raccolta sistematica e approfondita di tutti i dati clinici. Queste analisi sono molto nuove e costose, ma confidiamo di arrivare, nel tempo, a studiare un numero significativo di soggetti, inclusi quelli di controllo.
    Infine abbiamo avuto l’idea di iniziare a ristudiare, semplicemente, l’opera scientifica di Lejeune. Stiamo rintracciando i suoi articoli scientifici pubblicati a partire dagli anni ’60 fino ai primi anni ’90, incredibilmente attuali se si pensa che in Genetica gli articoli diventano “datati” nell’arco di pochi anni. Questi lavori sono una fonte straordinaria di intuizioni ed idee spesso rimaste non verificate, e che oggi potrebbero essere sottoposte al vaglio dei moderni mezzi della genomica e della bioinformatica.

    Esiste una distinzione netta tra normalità e patologia nell’ambito del genoma?

    Il miglioramento delle tecniche di indagine ha mostrato che, anche in assenza di sintomi clinici evidenti, tutti gli individui umani portano un carico di mutazioni genetiche più o meno grande.
    Nel discorso al Premio “William Allan” prima citato, Lejeune ha prefigurato questa situazione, chiedendosi come si poteva stabilire una soglia netta che distinguesse normalità e patologia nel mosaicismo, ossia una condizione in cui parte delle cellule hanno un corredo cromosomico normale e parte hanno trisomia. Si chiedeva, nel 1969: “Ammettendo che la presenza del 50 per cento di cellule mutate sia patologica, cosa diremo di chi ne ha il 40, il 20 o il 5 per cento?”
    Sono rimasto veramente colpito quando ho scoperto che solo nel 2005, Rehen e collaboratori hanno effettivamente dimostrato che nei cervelli umani di individui normali il 2% dei neuroni ha trisomia del cromosoma 21, e lo studio era limitato a questo solo cromosoma…
    Questo dato sorprendente, già riconfermato, mostra la difficoltà nell’applicare schemi precostituiti, come il concetto di “perfezione”, alla realtà biologica.
    Siamo tutti imperfetti.

    Vorrei infine ricordare che il Prof. Lejeune chiamava i suoi piccoli pazienti “diseredati”, unendo genialmente nel termine la loro condizione biologica di portatori di un patrimonio ereditario errato alla condizione sociale di abbandono in cui spesso versano, e sosteneva:
    “La gente dice: “Il prezzo delle malattie genetiche è alto. Se questi individui potessero essere eliminati precocemente, il risparmio sarebbe enorme!”.
    Non può essere negato che il prezzo di queste malattie sia alto, in termini di sofferenza per l’individuo e di oneri per la società. Senza menzionare quel che sopportano i genitori!
    Ma noi possiamo assegnare un valore a quel prezzo: è esattamente quel che una società deve pagare per rimanere pienamente umana”.

    Vi è una forte responsabilità della società nel supportare in tutti i modi e nel non lasciare sole le famiglie delle persone con disabilità.

    Fonte: vitanascente.blogspot.it”

  4. Ringrazio il Dott. Pennetta per il suo bellissimo ed interessantissimo articolo e tutti coloro che attraverso i loro commenti contribuiscono ad approfondire questo importante argomento.
    Volevo lasciare anche il diretto contributo del Prof. Jerome Lejeune, relativo al suo intervento al Meeting di Rimini del 1990, riportato qui:
    http://www.youtube.com/watch?v=zMVg4HOlmXc

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