La corda sull’abisso

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Siamo in periodo estivo e CS propone la novità di un racconto a puntate a sfondo fantascientifico con il quale accompagnare un momento di riposo ma che offra anche qualche riflessione.

L’autore è Htagliato e il tema non poteva essere che quello dell’evoluzione…


 

Era un grande giorno per Alessandro Luterani, o almeno, questo era quello che egli sentiva. Il sole splendeva, ma non picchiava, c’era vento, ma non disturbava. Alessandro, detto Alex, si era lasciato andare ad un sostenuto ottimismo.

Alex stava lavorando ad un progetto che andava avanti ormai da diversi anni, condotto nella mega-villa del suo finanziatore, il miliardario italo-inglese Henry Giver.

Collocata su una collinetta di Miseno (nella città metropolitana di Napoli), tra il mare ed un lago salato, era una villa di finto stile neoclassico, esternamente ocra e rosa salmone negli interni, di innegabile raffinatezza. Nessuno si meravigliava che Lord Giver, come lo chiamavano alcuni, possedesse quella dimora, perché era un uomo vergognosamente ricco, così ricco che nessuna dichiarazione dei redditi avrebbe saputo esprimere la sua ricchezza. Infatti tale documento non lo faceva.

“Sinceramente, Henry, non ho mai capito in che consista il tuo lavoro”, disse Alex mentre lavorava seduto ad un ampio schermo di un computer.

“Non vorrei annoiarti con le mie faccende, Alex, sai già che, in breve, mi occupo di import-export in giro per il mondo. Perché non mi rispieghi invece cosa dovrebbe succedere oggi con il tuo caro marchingegno?”

“Allora preferisci che ti annoi io, invece? Siccome hai letteralmente speso tanto per me, ho già provato diverse volte a spiegarti che fine stanno facendo i tuoi soldi, ma credo che capirai solo quando avrò raggiunto il mio obbiettivo, probabilmente oggi, finalmente.” Detto questo, Alex si alzò dalla sedia su cui era seduto da tre ore e si mise a contemplare il suo marchingegno. Essendo un biotecnologo, non disdegnava affatto la vista di quella serie di dispositivi ad alta tecnologia che da lì a poco avrebbero coronato il suo sogno.

Ciò che aveva davanti ai suoi occhi l’aveva battezzata I.E.M., acronimo di Induced Evolution Machine, “Macchina dell’evoluzione indotta”: era formata di tre parti principali, ossia da un grosso cilindro grigio metallizzato orizzontale molto simile ad uno scanner per la risonanza magnetica, posto su un basamento metallico rettangolare alto mezzo metro, da una specie di armadio nero da cui partivano numerosi tubi che si allacciavano sia al cilindro sia al basamento e da due computer collegati al tutto, su cui uno Alex stava trascorrendo quasi senza sosta gli ultimi giorni.

“Non essere severo con me, sono solo un imprenditore a cui piace sentire discorsi di persone che lavorano in un campo così diverso dal suo”, disse Henry lusingando lo scienziato. Quest’ultimo si voltò dispiaciuto verso il padrone di casa, ma non era facile prendere sul serio un uomo come Henry: vestito con un completo granata e camicia blu, era molto eccentrico non solo per i suoi soldi ma anche per i vistosi capelli rossi e un pizzetto dello stesso colore abbinati a degli occhi neri difficili da interpretare.

“Mi scusi, Lord Giver, lei ha il diritto di capire a cosa mira la nostra opera, perché è di fatto di entrambi”, rispose mite Alex, pulendosi i suoi occhiali dalla montatura blu e aggiustandosi i suoi indomabili capelli neri, superati in disordine solo dalla sua nera barba incolta.

Subito però lo corresse Giver: “Ti prego, Alex, dammi del tu, o meglio, dammi del lei solo il giorno in cui ti pago, non oggi, visto che oggi dovrebbe essere il giorno in cui mi ripaghi”.

“D’accordo”, riprese Alex, “Henry, come tu saprai, l’attuale teoria dell’evoluzione ha per motori principali le mutazioni casuali e la selezione naturale, ma alcune voci fuori dal coro premono per una riforma paradigmatica della teoria, per esempio per renderla più predicibile, più tecnologicamente applicabile”.

 “Mi ricordo!”, esclamò Henry, “Ricordo che tu ti definivi tra quelli che cercava nuove soluzioni “tra la spazzatura””.

“Fuochino”, obbiettò Alex sorridendo, “io ero tra quelli che cercava meglio nel DNA-spazzatura, poi sono passato a strutture sempre più grandi, fino all’idea di farmi aiutare dalla Fisica. Vedi, il fatto è che le mutazioni sono sostituzioni nella catena del DNA di un nucleotide al posto di quello previsto dalla duplicazione del DNA, ma esistono fenomeni ad una scala maggiore legati in modo più stretto e diretto con le caratteristiche fenotipiche di un organismo…”, Alex spense il suo discorso perché vide che Henry sembrava non seguirlo più. “Ti avevo detto che non mi avresti più capito”, ma Henry sembrò ridestarsi, “ti prego, Alex, continua, non ti fermare. Mi piacciono i tuoi discorsi scientifici, perché sapere che tu sei così intelligente e che io ti sto pagando fa sembrare intelligente pure me”.

Alex decise di tornare a sedersi al suo computer. “Henry, Henry, col mio laboratorio che ha preso il posto della tua biblioteca privata, mi sa che sono stato di più una privazione della tua cultura”.

Henry cominciò a guardarsi intorno, notando i grandi vuoti che si erano creati da quando sulle pareti di una delle sale più grandi della sua villa erano stati rimossi gli altissimi scaffali, contenenti centinaia di volumi di tutte le epoche. Ora i vuoti erano alternati a grafici, cartine, prese della corrente, dispositivi di riserva, cavi e quant’altro si potesse trovare in un laboratorio di ricerca.

“Alex, non preoccuparti per i miei libri, tanto non li leggevo mai, sono sempre impegnato e pur volendo non sarebbe bastata una vita intera a leggerli tutti. Mi servivano solo per spaventare gli ospiti facendogli credere che sono un pozzo di cultura; ma grazie a te…”, Henry puntò un fiero dito all’indirizzo di Alex, “grazie a te che sicuramente diventerai un premio Nobel, del trucco del muro di libri non ne avrò più bisogno. Quando sei amico di un premio Nobel, hai per diritto la nomea di uomo colto e raffinato”.

Alex era troppo concentrato per pensare ad una replica ai paradossi di Henry, per cui decise di ignorarlo.

Henry cercava in Alex un sorriso di complicità oppure un occhiolino malizioso, ma questi rispose semplicemente annuendo.

Tra loro due non c’era una vera amicizia, di quelle che permettono ad una persona di indicare un’altra come “amico” senza il dubbio di compiere una grossolana approssimazione. Certamente le differenze pesavano: ad Henry piaceva ostentare il suo cinismo, la sua arte dell’imbroglio, la sua morale estremamente elastica, il suo scetticismo verso tutto ciò che è disinteressato. Non che Alex fosse un santo, non si sentiva moralmente superiore al suo finanziatore, ma almeno, pensava lui, non faceva un vanto delle sue scorrettezze e del suo nichilismo.

Alex non ambiva a praticare tutte le virtù, ma gliene bastava una, la sua qualità più grande, la determinazione. Quando Alex decideva che una cosa sarebbe stata al centro dei suoi pensieri, lo si poteva prendere di parola: tutto il resto del mondo cadeva nell’ombra, cose e persone diventavano strumenti o rallentamenti dei suoi piani, a prescindere che la sua causa di turno fosse stata nobile o criticabile. Alex amava pensare a sé stesso come ad un treno che non si limita a correre con tutta la potenza disponibile, ma come un treno che costruisce da sé i suoi binari, piazzandoli con potenza e velocità davanti alle sue ruote.

Se aveste chiesto ad Alex quale fosse il suo numero preferito, egli, senza esitazione, avrebbe risposto “1”: una sola idea, una sola persona, un solo scopo.

Di tutt’altra risma era invece Henry, la sua risposta alla domanda del numero preferito sarebbe stata “1000”, oppure “10’000” e così via. Henry era dispersivo, accumulava esperienze, beni, donne, hobby, interessi, lavori e naturalmente soldi. In ogni caso le forti differenze di carattere non erano il solo e preponderante motivo per cui in tanti anni che Henry ospitava Alex nella sua villa, per farlo vivere accanto ai suoi esperimenti, non era nata una vera amicizia. Il motivo era un altro: Alex leggeva sempre negli sguardi di Giver e nel suo modo di fare un invincibile senso di superiorità. Alex non fantasticava di essere guardato dall’alto, ma gradiva essere visto come un uomo alla pari.

“Posso farti una domanda un po’ personale, Alex?”, riprese Henry lievemente deluso dalla mancanza di complicità del suo dipendente.

“Non farti problemi, Henry”, rispose Alex fissandolo negli occhi.

“Non è che per caso il vero scopo del tuo esperimento è di metterti a giocare a fare Dio?”

“No di certo, Henry, che domande sono? Lo faccio per il bene della scienza”, ma Alex disse questo distogliendo subito lo sguardo da Giver, verso il computer, dove la luce dello schermo avrebbe occultato il lampo di ambizione che era sfuggito dagli occhi del biotecnologo.

Henry tornò ad assumere un atteggiamento più leggero e colloquiale: “Una cosa di cui mi dispiace per te, Alex, è che all’inizio non lavoravi da solo, eri circondato da ingegneri, biologi, fisici…che fine hanno fatto?”

“Ho ringraziato loro per avermi permesso di realizzare tutta l’apparecchiatura della I.E.M., che da solo non avrei mai potuto fare per limiti di competenza, e devo ammettere che era un bel lavoro di squadra…poi, quando hanno cominciato a capire in cosa consistesse veramente il mio progetto, hanno iniziato a dire di me, in modo più o meno esplicito, che ero solo un pazzo”.

“Quindi alla fine sono rimasto solo io, l’unico a credere che tu non sei solo un pazzo, ma anche una mente tanto brillante quanto incompresa”.

“Grazie, Henry”, rispose Alex con tono divertito, “devo ringraziarti di molte cose a dire il vero: l’ospitalità, i fondi, lo spazio…a proposito, non mi hai più detto che fine hanno fatto i libri”. Alex tentava una maggiore confidenza.

“Non preoccuparti, Alex, li ho solo spostati in un’altra casa, la mia prima casa, quella più grande”.

Questa risposta stemperò le speranze di Alex. Si sentiva ancora il fastidioso ego di Lord Giver.

Henry proseguì peggiorando le cose: “In ogni caso ho fatto in modo che restasse un po’ di spazio per quella scultura di Michelangelo”, disse indicando presso una porta laterale della ex-biblioteca.

Alex guardò un attimo in quella direzione: “È davvero una copia molto fedele”.

“Copia?”, domandò Henry tra il perplesso e l’offeso. Alex resto per un po’ muto a fissare Henry, credendo che fosse un altro dei suoi scherzi, ma resosi conto che non sarebbe partita nessuna risata o occhiolino o sorriso di compiacimento, preferì scuotere la testa e tornare al lavoro.

Mentre Alex batteva le dita sulla scacchiera, un piccolo grido bestiale emerse da una gabbia posta presso la parete alla sinistra di Alex.

“Il tuo prossimo paziente, dott. Luterani, attende di essere visitato”, disse Henry sorridendo ad uno scimpanzé che stava rinchiuso in una gabbia. Pure Alex smise di lavorare e si volse divertito verso la creatura, quindi scherzando rispose ad essa: “Non temere, Lucky, ormai ho concluso la programmazione della I.E.M., il tuo turno è arrivato”.

“È una cosa un po’ grottesca di dire, Alex”, obbiettò Henry, “gli ultimi due scimpanzé che ti ho procurato sono rimasti stecchiti dalla I.E.M.. Capisco che hai scelto questa specie di mammiferi perché ne condividiamo il 98% del DNA, ma sembra che tu ci tenga solo a quel 2%, perché è ciò che rimane di loro dopo il tuo trattamento”.

Alex quel giorno si sentiva ispirato, per cui replico con spirito: “Ottimismo, Henry, ottimismo: forse la I.E.M. finora ha solo funzionato al contrario, trasformando gli scimpanzé in batteri e non ce ne siamo accorti”.

Henry rise così tanto che si sedette sulla prima sedia a portata di mano.

Alex si avvicinò alla gabbia per guadare negli occhi Lucky, che era stato molto quieto in quei due giorni in cui Giver l’aveva costretto a stare con loro, dopo averlo comprato da uno zoo in fallimento.

“Non so spiegarti bene il perché, Henry”, disse Alex con tono pensieroso, “ma credo che sia scattato qualcosa di speciale tra me e quest’ animale, per cui penso che l’esperimento riuscirà. Non è solo perché stavolta ho compiuto una sequenziazione migliore del DNA e perché ho calibrato meglio il dispositivo per le frequenze, ma anche perché ho come la sensazione che questa creatura si fidasse di me. Non ha per niente paura di quello che le succede intorno”.

“Vuoi che ti lasci un po’ da solo con lui?”, disse ironico Giver.

“No, grazie, è il momento di metterlo nella I.E.M. ormai”. Alex aprì la gabbia e lo scimpanzé ne uscì timidamente, fissando con i suoi occhi castani il volto dello scienziato.

“Non credi che abbia diritto ad un’ultima banana?”, dichiarò semiserio Henry.

Alex guardò lo scimpanzé, poi si volse verso una scrivania dove erano appoggiati vari frutti tra cui un casco di banane, poi fissò lo scimpanzé, poi la frutta, poi vide che anche la creatura guardava le banane e si convinse: “Va bene, ma sono sicuro che non sarà la sua ultima banana!”. Alex si diresse verso il casco di banane, ne staccò una e nel voltarsi vide che il mammifero peloso l’aveva già raggiunto. Mentre l’animale consumava quello che forse era il suo ultimo pasto, Alex lo sollevò delicatamente, lo portò vicino alla I.E.M. e abbassando una levetta fece aprire la superficie metallica del cilindro.

Lo scienziato pose lo scimpanzé dentro il grosso tubo e confidando nella complicità creatasi con l’animale, delicatamente legò le zampe posteriori a dei lacci d’acciaio, poi legò allo stesso modo gli arti superiori, quando esso finì di mangiare la banana infine gli pose una mascherina davanti alla bocca, legata dietro al capo e collegata al fondo del cilindro. Inserì dei tubicini terminanti con degli aghi nelle braccia dello scimpanzé e quindi, finalmente, rialzò la levetta per chiudere dentro la I.E.M. il suo paziente.

“Ora posso dare il via alla procedura…che Dio mi assista, o almeno mi perdoni”

“Amen”, rispose Henry, semiserio come sempre.

Il software della I.E.M. avviò un programma che riempiva l’interno della capsula contenente lo scimpanzé con un liquido nutritivo simile a quello amniotico, ma tutto ciò non era visibile da fuori. In seguito un ronzio appena accennato annunciava l’influsso di radiazioni estremamente calibrate che venivano radiate verso il corpo dell’animale.

“Ora ci dovrebbero volere circa sei ore”, annunciò triste Alex.

“Bene, avevo giusto il bisogno di farmi una doccia”, esclamò Henry, uscendo dalla porta centrale del laboratorio, posta al centro e di fronte alla postazione di Alex.

“Io per ora aspetterò qui, ci vediamo più tardi”, rispose impassibile lo scienziato alla leggerezza d’animo di Henry.

“Fa come credi, a dopo” ribadì Giver, quindi sparì.

Alex per un po’ stette seduto, poi cominciò a gironzolare nervoso, poi si mise a passare le dita sulla superficie della capsula metallica, bisbigliando “ti prego, non questa volta, mia I.E.M.”, quindi tornò a sedersi mettendosi le mani tra i capelli: “Dio, deve essere così quando aspetti un bambino in sala parto”. Alex aveva 33 anni e non aveva ancora goduto di questa gioia (o di quest’ansia, da un certo punto di vista).

Incapace di reggere la tensione, decise di andare un po’ fuori dalla villa, nel giardino davanti all’ingresso, dove poteva sperare in un maggiore relax godendosi la vista del mare.

Ripensò agli anni trascorsi a cercare un finanziamento, all’incontro quasi casuale con Lord Giver ad una mostra scientifica. “Mi hanno detto che la teoria dell’evoluzione spiega perché ad un certo punto un antibiotico smette di funzionare”,  gli aveva detto all’epoca Henry, “ma non credo che io possa fare molti soldi con una teoria che mi dica quando una cosa fallisce anziché quando una cosa riesce”. Fu un incontro molto particolare, dovette ammettere tra sé Alex.

Lo scienziato camminò verso il mare, più perché sapeva che gli avrebbe tolto tempo che per altro, giacché una app sul suo cellulare lo avrebbe avvisato di imprevisti durante la procedura di evoluzione indotta.

Giunto sulla spiaggia, passeggiò a lungo, pensando a come fosse diventato così solo in quegli ultimi tempi, se si escludeva l’eccentrica compagnia del “Lord”. Quando il sole tramontò, decise di tornare nella villa, poi di trovare un punto comodo nel laboratorio e di schiacciare un pisolino per trascorrere le ultime ore.

Incredibilmente, la tensione che prima lo teneva agitato, giunto nella villa lo fece abbattere, finché un segnale acustico del secondo computer della I.E.M. lo fece trasalire.

“Henry, la procedura è stata completata!”, urlò Alex.

“Sono già qui, Alex”, disse Henry camminando con le mani in tasca verso lo scienziato.

Alex si precipitò al suo computer, comandò al software la procedura di aspirazione del liquido rimasto nella capsula e quindi si alzò lentamente per riabbassare la famigerata levetta di apertura. A sua sorpresa, tremava come una foglia più del suo primo tentativo. Dopo una piccola esitazione, abbassò la levetta e la capsula si aprì.

Alex per l’emozione farfugliò qualcosa, tremò ancor di più sulle sue gambe e infine cadde a terra: era successo quello che aveva sperato, ma vederlo con i suoi occhi era tutta un’altra cosa. Anche se era una scena su cui aveva fantasticato per anni, aveva comunque dell’incredibile.

Henry ruppe il ghiaccio: “E allora? Fa vedere anche a me! Ah, ecco, ora vedo anch’io: complimenti, è un bell’uomo, credo che ora tu gli debba dare un nuovo nome…” [CONTINUA]

 

 

 

 

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"htagliato", Fisico della Materia. Vive a Napoli.

15 commenti

  1. Di norma la fantascienza la evito. riesco ad accettarla solo nei films.
    In questo caso è diverso…
    Grazie Htagliato per il lavoro e l’impegno nel far proseguire il sito.

      • Bè.. Frequentare questo blog è una delle poche cose intelligenti che mi capita di fare quando ho tempo libero. 🙂
        Grazie a voi, soprattutto al professor Pennetta, che mi permettete di farlo.
        Non ci sarà alcun merito “perché così fanno anche i pagani” ma fortunatamente non si riduce ad un darsi ragione a vicenda come chi se la canta e se la suona (anche se magari il rischio c’è). D’altronde è normale che si instauri pian piano un legame tra coloro che sono in cammino alla ricerca dello stesso Tesoro. Trovo incredibile che possa accadere (più o meno) in rete. Difatti mi piacerebbe conoscervi tutti, di persona.. dal vivo è più corrispondente!

  2. Uomo di multiforme ingegno…non lo scimpanzé diventato uomo, ma Htagliato che sa scrivere racconti, parlarti di scienza, spiegarti la fisica e altro e che mi fa andare fiero delle mie parziali, ma importanti, origini partenopee, perché penso che solo il mix di culture della sua città possa produrre persone tanto complete e originali (e non il solo “orologio a cucu”; non me ne voglia Simone de Cyrène…:-).
    @Paolos, nessun problema per me a dare del tu, ma su questo blog c’è chi ci tiene al “lei” e dovrei tenere una piccola lista che mi indichi chi desidera una forma o l’altra 🙂

  3. E’ raro trovare un racconto di fantascienza che non usa la scienza come pretesto per vendere ma come pretesto per far riflettere. Questo racconto (o almeno la sua prima parte) è uno di questi, Complimenti!

    • MenteLibera65 on

      Non è poi così raro. La metà dei film di fantascienza immaginano (dandone una valutazione molto negativa) un mondo futuro con un governo unico, dittatoriale, dove l’eugenetica e la manipolazione genetica la fa da padrona, con varie sfaccettature.
      Di recente ho visto per esempio “Moon”, sulla clonazione, ma in realtà sono moltissimi quelli che hanno sullo sfondo questi temi.
      E’ in assoluto uno dei temi più trattati, e se tutti gli scrittori di ogni segno convergono verso una visione futura “alienata” del genere umano, è segno che questa non è , come può sembrare , una preoccupazione e sensibilità soltanto del mondo cattolico, ma ci sono anche tante persone di buona volontà che si chiedono dove andremo a parare.
      Il che non toglie che siamo tutti in attesa della 2^ puntata di Htagliato…

      • Buona Domenica, Mentelibera65, la seconda puntata apparirà domani mattina.

  4. Che dire, Htagliato è pieno di risorse, forse è proprio il suo essere partenopeo il segreto di tanta versatilità, propongo uno studio per isolare il gene della napoletanità! 🙂

    PS aspetto le prossime puntate per sapere come va a finire, Htagliato non ha anticipato niente neanche a me…

    • Grazie prof., preciso che secondo me Napoli e Roma quasi si completano: noi diciamo “Ué”, voi dite “Ao”, resta una sola vocale, la I, credo che stia da qualche parte al Nord

  5. Adoro la fantascienza proprio perché mi suscità incredibilità. Bel racconto.
    Sono curioso di come va a finire…

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