Dioscoride, o la nascita della farmacologia

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farmacista

Il farmacista (Pietro Longhi, 1752)

 

Dioscoride, o la nascita della farmacologia

di Giorgio Masiero

Alle antiche origini della tassonomia botanica e della farmacopea

 

Si sa, tutto il mondo invidia i napoletani per il sole, il mare, la pizza e la mozzarella. Io li invidio maledettamente anche per un’altra cosa, la loro Biblioteca Nazionale dove, potendo, mi ritirerei volentieri un’ora al mese per 172 mesi filati (172?! pazienza, Lettore…), a toccare – dopo essermi munito di asettici guanti in lattice –, annusare e sfogliare un tesoro preziosissimo ivi custodito, un codice miniato dei più antichi e meglio conservati al mondo: il “Dioscurides Neapolitanus”.

Dioscoride, chi era costui? Fu uno scienziato vissuto nel primo secolo dopo Cristo. Sì, uno scienziato come quelli di oggi, ma tra i più grandi. Non crediamo a chi ci racconta che la medicina cosiddetta moderna nacque, quasi per miracolo, con Andrea Vesalio e Gabriele Falloppio nel XVI sec. a Padova – l’unico posto al mondo allora dove, con un po’ di discrezione, si potevano dissezionare i cadaveri –; la vera fisica nel XVII sec. a Pisa o a Parigi, con Galileo, Cartesio, ecc.; la biologia scientifica in Svezia con la classificazione dei viventi (la “tassonomia”) di Carlo Linneo (XVIII sec.), ecc., ecc. Invero, queste sono le millanterie degli ultimi arrivati che, come fanno per dovere democratico gli eletti nelle pubbliche istituzioni, annunciano: “Adesso ci siamo noi, il vecchio sistema sarà demolito e tutto cambierà in meglio”. O almeno, a essere compassionevoli, è l’infantile reazione verso l’ultimo prodotto tecnico, per necessità superiore a tutti quelli che l’hanno preceduto, provocata al fruitore dall’eccitazione che gli cela il riconoscimento dell’infinita fila di scoperte minori precedenti, da cui quello dipende.

Ai tempi di Claudio e Nerone, Dioscoride produsse la prima classificazione di sostanze minerali e di estratti vegetali ed animali secondo le loro proprietà terapeutiche, con un metodo “scientifico” valido ancor oggi in farmacologia. Come Aristotele aveva teorizzato ed il suo scolaro Teofrasto praticato, la classificazione è la condizione di ogni ricerca scientifica, il fondamento senza cui questa non può neanche cominciare. Ma, risalendo nella nebbia dei tempi, non fu forse Adamo il primo Grande Classificatore? “Dio, il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi” (Genesi 2:20-21). Nella Bibbia viene espressa così con molta chiarezza, 6 secoli prima delle autonome intuizioni della filosofia greca, la specificità umana del linguaggio, quella caratteristica che consegna all’uomo la tecnica, cioè il dominio e la custodia del creato, e la razionalità, cioè la facoltà di elaborare i concetti, che altro non sono che nomi di classi.

La tassonomia iniziò dunque con la comparsa della specie umana ed il suo impulso irrefrenabile a nominar le cose per dominarle. Ai primordiali nomi e concetti seguirono, nella crescente babele di etnie e linguaggi, i processi di diversificazione e di astrazione caratteristici delle culture. Se Teofrasto (371 – 287 a.C.) è il padre della tassonomia scientifica perché per primo propose in due trattati di botanica i criteri per ordinare gli organismi vegetali, Dioscoride è il padre della farmacologia, perché pose le basi logiche e scientifiche per classificare le sostanze dei tre regni naturali secondo le loro applicazioni medicinali. Nel suo trattato “Perì hyles iatrikès” (“Sulla materia medica”), Pedacio Dioscoride nato nel 40 d.C. ad Anazarbe in Cilicia riunì tutto lo scibile terapeutico delle civiltà mediterranee (egizia, assiro-babilonese, etiopica, greca, celtica e romana), di cui era venuto a conoscenza durante i suoi viaggi nelle diverse province dell’Impero come medico militare. 5 libri, 827 capitoli con altrettante ricette medicinali – fatte di metalli, polveri, aromi, oli animali e vegetali, semi, frutti, spezie, erbe, arbusti, funghi, vini, ecc. – per oltre 4.000 applicazioni medicinali: in ciò consiste la farmacologica monumentalità dell’opera dioscoridea.

Un foglio del “Dioscurides Neapolitanus”

La scientificità sta nella sistematicità del trattato, nell’accuratezza di molti nomi di piante che sono ancora validi come nomi di generi (Anagallis, Anemone, Aristolochia, ecc.) e nell’appropriatezza di molte delle terapie associate: così, alcune erbe medicinali citate, come l’achillea, l’aloe, la belladonna, la camomilla, lo zafferano, la malva, la menta, lo zenzero, ecc., che sono comprese oggi nell’elenco delle sostanze essenziali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; o la radice della mandragora, che vi è consigliata a “coloro che devono subire un taglio o una cauterizzazione in modo che non sentano dolore, sopraffatti da profondo sonno”: un precorrimento dell’anestesia chirurgica! La mandragora inoltre, aggiunge il medico cilicio, ha qualità afrodisiache (come avrebbe anche celebrato Machiavelli nella commedia omonima), assieme alla cantaridina, alla menta e al bulbo di orchidea. Al contrario, da antidoto ai bollenti spiriti Dioscoride consiglia il salice bianco, la cui essenza, l’acido salicilico (o aspirina) è utilizzata ancor oggi come antipiretico.

La scientificità di Dioscoride sta perfino nell’audace proposizione di una teoria. Questa consiste nell’ipotesi che tutte le erbe nascondano nella forma geometrica, nel colore, al tatto, ecc., un segno della loro utilità (o nocività) per l’uomo: così le foglie a forma di cuore potrebbero essere correlate ai disturbi cardiaci, la linfa gialla all’itterizia, l’orchidea all’esercizio della sessualità, ecc. Noi oggi possiamo sorridere di fronte all’ingenuità d’una tale concezione, ma forse non dovremmo più di tanto, se meditiamo che anche le moderne congetture, in ogni campo scientifico, procedono se non proprio per similitudine comunque per qualche supposto morfismo, ed infine, ciò che più conta, il criterio corroborativo oggi è lo stesso applicato da Dioscoride duemila anni fa: il risultato in esperienze ripetute!

L’opera autografa di Dioscoride, scritta in greco su papiro, è andata perduta, ma ne furono eseguite molte versioni dopo la sua morte che ci sono pervenute. Nell’opera originale non essendo raffigurate le piante ed apparendovi omonimi e sinonimi in varie lingue, le trascrizioni divennero spesso interpretazioni, più o meno libere. Le due versioni più antiche di cui disponiamo sono un codice conservato a Vienna e il codice sopracitato di Napoli, del VII sec. La pergamena partenopea è costituita di 172 fogli nei quali la rappresentazione miniata di 409 specie vegetali è accompagnata dalla descrizione delle proprietà e degli impieghi terapeutici. Rispetto all’originale, questa versione è figurata con bellissime immagini, ma è limitata al regno vegetale, probabilmente per un uso più didascalico da erbario e d’intrattenimento del suo committente bizantino, piuttosto che per un uso medico. Così, l’elenco è ordinato alfabeticamente per nome delle piante, invece che delle malattie com’era nell’opera originale e come si deve in un’autentica farmacopea. Pianta dopo pianta, con i nomi e i soprannomi, vengono riferiti comunque, per ogni specie, l’ambiente, la descrizione, le proprietà che la pianta contiene e l’azione che esercita, gli usi medicinali e gli effetti benefici, il dosaggio, i metodi di preparazione e di conservazione, nonché gli usi d’altro genere, per esempio veterinari o cosmetici.

Pietro D’Abano (1250-1316) fu il primo a tradurre Dioscoride in latino. Le versioni latine, intitolate “De Materia Medica”, hanno rappresentato il miglior trattato di botanica medicinale dal Medio Evo fino al XVIII sec. in Europa e furono tradotte anche in arabo e in persiano per l’Africa e l’Asia. La prima edizione a stampa risale invece al 1499 e fu curata da Aldo Manuzio. In lingua italiana, la prima edizione (“Di Pedacio Dioscoride Anarzabeo Libri Cinque. Della historia et materia medicinale, tradotti in lingua volgare italiana”) uscì nel 1544 per iniziativa del veneziano Pietro Andrea Mattioli.

L’ultima, recentissima versione del “De Materia Medica” è un sontuoso facsimile pubblicato da Aboca in due volumi, frutto di un team multidisciplinare di biologi, medici, farmacologi, grecisti classici, archeologi ed artisti contemporanei, riuniti in seguito ad un progetto ventennale che aveva coinvolto, oltre alla Biblioteca Nazionale di Napoli, l’Università e l’Orto Botanico locali, lo Smithsonian Institute, l’Orto Botanico di Berlino e l’Aboca Museum di Sansepolcro.

“Erbario” di 600 piante dipinte sul soffitto della chiesa dell’Abbazia di Monte S. Michele a Bamberga (XVII sec.)

Il testo greco e le immagini originali del “Dioscurides Neapolitanus” sono riportati nel De Medica di Aboca in carta patinata, affiancati dalla traduzione in italiano, da un commento critico e da 243 tavole inedite, disegnate secondi i canoni della nomenclatura scientifica moderna. In 374 schede le conoscenze scientifiche di Dioscoride sono messe a confronto con quelle raggiunte dalla botanica medica attuale. Un’appendice di 700 voci esamina le patologie studiate dal medico cilicio ed i farmaci corrispondenti. Un gioiello per la biblioteca di ogni persona colta, e specialmente dei biologi e dei farmacologi. Per non dire di coloro che sono allo stesso tempo biologi e farmacologi, come il nostro carissimo prof. Enzo Pennetta, che ha festeggiato nei giorni scorsi il suo compleanno, e a cui dedico questo articolo.

 

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GIORGIO MASIERO: giorgio_masiero@alice.it Laureato in fisica, dopo un’attività di ricercatore e docente, ha lavorato in aziende industriali, della logistica, della finanza ed editoriali, pubbliche e private. Consigliere economico del governo negli anni ‘80, ha curato la privatizzazione dei settori delle telecomunicazioni, agro-alimentare, chimico e siderurgico, e il riassetto del settore bancario. Dal 2005 interviene presso università italiane ed estere in corsi e seminari dedicati alle nuove tecnologie ICT e Biotech.

30 commenti

  1. Io a Napoli mi ritirerei nel museo archeologico, che conserva alcuni pezzi inestimabili sconosciuti al grande pubblico. Magari ci si vede per un caffè a metà strada…

    • Giorgio Masiero on

      Sono d’accordo con Lei, Flavio: il museo archeologico di Napoli è tra i più belli del mondo, certamente il ricco dell’Italia meridionale. Però oggi il tema è la farmacologia!

  2. Giuseppe Cipriani on

    Da cultore della fitoterapia non posso che confermare che molte delle intuizioni/applicazioni degli antichi in questo campo vastissimo (e minato) rimangono validissime anche oggi. E quanti farmaci di sintesi si potrebbero risparmiare o ridurre, almeno nelle prime fasi di comunissimi malanni!
    Grazie al prof. Masiero per questa ennesima chicca, che ci ricorda che il cammino dell’uomo in cerca di soluzioni e applicazioni è sempre una splendida e avvincente avventura.

  3. Grazie, prof. Masiero, per il servizio reso alla cultura e a Napoli in questo articolo!

    Vedo che volete passare dalle mie parti, in tal caso vi consiglio di scendere alla fermata della metropolitana di via Toledo, perché ha ricevuto due premi:
    http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/campania/2013/09/21/Premiata-stazione-Toledo-metro_9335907.html

    http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CRONACA/napoli_nuovo_premio_per_la_stazione_della_metropolitana_quot_toledo_quot/notizie/1691034.shtml

  4. Un doppio grazie a Giorgio, uno per questo articolo che ci mostra un pezzo di storia della medicina, e quindi della scienza, che è generalmente dimenticato, anche nei corsi universitari di farmacia e chimica e tecnologie farmaceutiche.
    E un grazie particolare per la dedica! 🙂

    • Giorgio Masiero on

      Grazie a te, Enzo, prima di tutto per quella tua grande impresa che ha nome CS.

  5. E pensare che nel commento dell’altro giorno stavo per fare gli auguri ma una strana sensazione mi diceva che non potevo esserne sicuro al 100% nonostante ricordassi che qualcuno, giorni fa, invece li fece. Per cui… per timore di prendere un granchio.. ulteriore giorno di ritardo. Mi perdoni Professore e tanti Auguri.
    A chent’annos!

  6. @ Giorgio Masiero:
    Perché nella Biblioteca Nazionale ci vorrebbe stare proprio 172 mesi? Nel senso che sicuramente il numero 172 non è casuale (14 anni e 4 mesi…perché?)

  7. È sempre un piacere leggerla, professore.
    Mi può spiegare in che senso Adamo, o comunque i primi uomini, nominando le cose le hanno classificate?

    • Bella domanda, utente Anna (le Sue domande sono sempre molto pertinenti).
      Aspetto anch’io una risposta dal prof. Masiero al riguardo. Nell’aspettare la sua risposta, vorrei permettermi di fornirne una io, molto sinteticamente, sperando di essere nel giusto e di non apparire indiscreto.
      E’ concezione antica, anzi arcaica, che fra le cose ed il loro nome esista una corresponsione indissolubile (realismo assoluto fra cose e linguaggio). Nominare qualcosa significa dunque imporne lo status di cosa reale ed essente; inoltre, il linguaggio è il mezzo simbolico antropico per eccellenza per la comunicazione ovvero creazione e trasmissione di conoscenza. E dato che esiste una corrispondenza diretta fra cosa e nome della stessa, si ha che nominare qualcosa significa conoscerla. Poiché, poi, la conoscenza si attua attraverso l’intelligenza, ovvero la facoltà di ordinare le cose per analogie e differenze, ovvero in linea primaria classificare, ne viene che Adamo dando nomi alle fiere le conosce e classifica gnoseologicamente.
      Tale arcaica concezione, che si ritrova nel mondo greco prima di Platone e caratterizza anche la civiltà ebraica, è in quest’ultima presente anche sotto una sfumatura di carattere “possessivo”, ovvero il rapportarsi della ragione verso le cose si attua secondo una tripletta logica nominare-conoscere-possedere. Si potrebbe addirittura azzardare a dire che nella mentalità semitica la classificazione fra cose proceda secondo relazioni di appartenenza; ciò si rifletterebbe nelle lunghe catene genitivali caratterizzanti i periodi delle lingue semitiche.
      Ma ora sto divagando e andando in OT.
      Spero di esser stato utile; il prof. Masiero saprà dirLe sicuramente meglio al riguardo.

    • Giorgio Masiero on

      Grazie a Lei, Anna.
      Le ha risposto Alio in modo completo, molto meglio di quanto io avrei potuto. Mi soffermo brevemente su un punto solo. Quando Adamo diede un nome (comune) alle cose, dicendo “questo è sasso”, “questa è pianta”, “questo è animale”, ha 1) classificato – perché non ha dato il nome (proprio) di sasso ad un particolare sasso – ma ha definito la classe dei sassi dalla classe di tutti gli altri oggetti “non sassi”; 2) ha introdotto il pensiero astratto, perché i nomi comuni (“sasso”, “pianta”, ecc.) sono concetti, nomi di classi, non nomi propri, che sono denominazioni di singole cose.
      E poi, quando tra gli “animali”, Adamo chiamò questo “bestiame” e quello “selvatico”, il pensiero astratto evolvette per astrazioni successive, di classificazione in sottoclassificazione in sotto-sottoclassificazione…

  8. Salve,
    anch’io ringrazio il prof. Masiero per questo gradevole articolo; penso sovente che qualche approfondimento storico di questo genere sarebbe cosa buona nei corsi di farmacia e medicina, fermo restando che l’obiettivo principale sia formare un medico od infermiere competente.
    p.s. Ringrazio anche tutti quanti scrivono per CS, che seguo sempre pur avendo meno tempo per commentare ultimamente. Ah, e tanti auguri tardi al prof. Pennetta.

  9. Ringrazio pure io il prof. perché sono un appassionato di fitoterapia e conosco Dioscoride per questo motivo.
    Posso aggiungere che questa teoria della somiglianza tra i rimedi utilizzati e le malattie o le parti del corpo da curare non è scientifica, ma è suggestiva e magari poteva servire a memorizzare meglio le varie applicazioni dei diversi rimedi, infatti spesso si fa fatica a ricollegare una rimedio fitoterapico con cui non si è avuto a che fare con le sue principali applicazioni.
    In tempi di scientismo imperante molte persone ritengono che i rimedi naturali siano sempre poco efficaci rispetto ai farmaci sintetici, tuttavia oltre la metà delle farmacopee europee sono costituite da rimedi di derivazione naturale e le farmaceutiche più innovative spendono capitali per finanziare ricercatori che trovino nuovi principi attivi nelle specie meno conosciute delle zone del pianeta che vantano una biodiversità ancora in gran parte inesplorata (anche se poi per brevettare la molecola tendono a farne un’imitazione sintetica che così può diventare “proprietaria” ed essere sfruttata commercialmente).

    • Considerazioni interessanti, essendo io a digiuno di conoscenze fitoterapiche.
      Anch’io reputo che sia bene riscoprire la validità delle cure naturali, pur rimanendo in una prospettiva scientifica; vi è oggidì questa strana idea che i prodotti sintetici siano non solo più efficaci di quelli naturali, ma gli unici veramente efficaci.

  10. Chiedo venia per l’OT…
    Htagliato mi è venuta in mente una domanda. L’avrei dovuta porre nell’articolo “On demand”.
    Posso farla?

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