Sulla crisi, sull’asservimento alle tecnoscienze, sul ruolo della filosofia: la profezia e la strategia di Edmund Husserl

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Di Alessandro Benigni

Si può dire che uno dei fondamentali orizzonti di ricerca della Fenomenologia, così com’è stata pensata da Edmund Husserl, abbia come scopo la chiarificazione concettuale del nesso tra la ragione storica (a partire dall’immagine scientifica del mondo che ne deriva) e la responsabilità (altrettanto storica) della Filosofia nell’individuare e nel perseguire il senso finale dell’umanità. Questo riguarda – per ricalcare una bellissima espressione di Marsilio Ficino – sia il microcosmo che il macrocosmo. Ovvero, detto in altri termini, comprende sia la finalità e gli scopi della propria esistenza individuale – ristretta dunque ad un limitato spazio sociale – sia una complessiva teleologia del nostro stare insieme, fino ad arrivare, alzando ancora un po’ di più lo sguardo, ad una prospettiva nazionale e sovra-nazionale: qual è, per esempio, la teleologia della storia europea? Qual è il fine del “fare Europa” insieme? E soprattutto – per tornare all’impostazione husserliana – la Filosofia è ancora in grado di indicare la strada all’intera comunità?

A questo proposito, non credo di essere certamente il primo a rilevare una terribile accelerazione della decadenza del pensiero, un certo infiacchirsi generale dello spirito (processo che già Husserl aveva rilevato con una chiarezza esemplare nei primi anni del Novecento, definendolo Müdigkeit: stanchezza): è evidente che la ragione si sta ripiegando su sé stessa, il libero pensiero appare sempre più atterrito e sempre meno in grado di occupare quel ruolo direttivo del progresso umano che da sempre gli compete.

L’immagine che affiora dal regno delle allegorie mi sembra possa essere quella del formicaio impazzito: una società di piccole formiche che corrono qua e là, avendo smarrito il senso dell’autocoscienza, faticano a comunicare e a ritrovare quell’organizzazione razionale che prima aveva stabilito con rigore finalità, regole, compiti, metodi, modi di cooperazione. Ognuno col suo piccolo ovetto in testa: senza sapere bene cosa dover fare, e soprattutto perché: ma quest’immagine si completa solo tenendo presente un’azione nascosta, una forza occulta che al momento in pochi percepiscono come reale e potente, in grado di pianificare incertezze e paure collettive, per spostarci tutti là dove qualcuno ha interesse che andiamo.

Solo di passaggio, a questo proposito mi piace ricordare quanto scrivevano Noam Chomsky ed Edward Herman in “La fabbrica del consenso[1]:

Non sarà sfuggito a nessuno che il postulato democratico afferma che i media sono indipendenti, determinati a scoprire la verità e a farla conoscere ; e non che essi passano la maggior parte del tempo a dare l’immagine di un mondo tale che i potenti desiderano che noi ci rappresentiamo, che sono in una posizione d’imporre la trama dei discorsi, di decidere ciò che il buon popolo ha il diritto di vedere, di sentire o di pensare, e di “gestire” l’opinione a colpi di campagne di propaganda”.

Se questo quadro è credibile – e io credo che lo sia – allora occorre oggi più che mai tornare a riflettere sul problema della coscienza, della conoscenza e della scienza in generale.

Provo a darne qualche accenno, nella prospettiva husserliana.

La coscienza umana, per Husserl, non è solo il luogo di manifestazione trascendentale delle regole onto/logiche che informano la nostra conoscenza, oltre che la nostra capacità di cogliere il senso che il mondo delle percezioni ci trasmette (e da qui procedere ad una costruzione eidetica del mondo), ma anche l’orizzonte di un progresso teleologico senza fine. La Fenomenologia è appunto un metodo di ricerca critica in ambito coscienziale, in quel vasto territorio che Husserl definisce come il vissuto (Erlebnis).

Tra i tanti filosofi contemporanei, amici di Husserl e del suo pensiero, anche Giuseppe Semerari aveva adeguatamente sottolineato quanto la Fenomenologia si proponga come coscienza critica sia della conoscenza sia della responsabilità verso la verità e la libertà che costituiscono l’essenza stessa dell’umanità razionale. Guardando soprattutto all’ultimo Husserl, Semerari identifica nella Fenomenologia un’attenzione fondamentale per la ricerca e la fondazione di una dottrina dei significati, primo dei quali il senso dell’essere uomini esistenzialmente “autentici” (termine che verrà poi ripreso da Martin Heidegger, il più grande tra gli allievi di Husserl) e quindi di una correlata presa di coscienza individuale e collettiva, a fronte del processo di dissolvimento delle scienze nella Tecnica e nella mera manipolazione strumentale e del loro appiattimento ai “dati di fatto” – come li chiama Husserl.

Scrive Semerari:

“Se si domanda quale ruolo può svolgere la filosofia nella definizione dei rapporti tra verità e libertà, la risposta è che la filosofia non è la verità né s’identifica con alcun valore, ma è la coscienza critica che la umanità prende tanto dei valori quanto della sua possibilità esistenziale (o libertà) di fronte ai valori stessi. La filosofia, in primo luogo, è chiamata a difendere la verità dal pericolo della dogmatizzazione, mostrandone e consolidandone le proprietà di temporalità, comunicazione e idealità. Per mezzo della filosofia il ricercatore e l’uomo comune ritrovano il senso della responsabilità personale verso il vero come impegno nel tempo, nella relazione e verso l’idea. È oltremodo significativo che la crisi della idealità del vero abbia coinciso sempre con una paralisi o una restrizione della libertà intellettuale e civile dell’individuo e della società in generale e che la crisi e la limitazione della libertà siano derivate da quella che Husserl chiama la Müdigkeit, ossia la stanchezza, che è oblio tanto della idealità teleologica della verità quanto dello slancio esistenziale, che occorre sempre di nuovo per viverne la tensione e realizzarla nella sua complessità. Dalla Filosofia come scienza rigorosa alla Logica formale e Logica trascendentale, dalle Meditazioni Cartesiane alla Crisi delle scienze europee, Husserl ha elaborato, infatti, il principio della responsabilità umana come identico al principio della rigorosità e autenticità del sapere. Secondo Husserl, «la scienza moderna ha abbandonato l’ideale della scienza autentica che operava in modo vivente nelle scienze sin da Platone e, nella prospettiva pratica, ha abbandonato il radicalismo della responsabilità scientifica». Lo scadimento della scienza a pura abilità tecnica e a manipolazione strumentale, se, da un lato, ha causato la perdita della dimensione teoretica del sapere, dall’altro, ha fatto scivolare nell’oblio il senso del rapporto del sapere, della tecnica, della manipolazione strumentale con il sé umano, che deve garantire la intenzionalità delle operazioni scientifiche e tecniche nelle quali si compie la sua mondanità. Se critichiamo le Weltanschauungen, che sottomettono la spregiudicata e obiettiva ricerca della verità ai bisogni immediati e pratici, ciò è perché bisogna «che ci ricordiamo della responsabilità che abbiamo verso la umanità. Non dovremmo subordinare l’interesse dell’eternità a quello del nostro tempo, per soddisfare le nostre necessità non dovremmo lasciare ai posteri in eredità delle necessità maggiori siccome mali che non possono mai essere estirpati». Il radicalismo filosofico, il servizio che in proprio la filosofia adempie nei confronti della verità e a garanzia della sua libertà d’indagine coincidono pienamente con la originaria responsabilità che ciascuno ha, anzi è, nella comunità umana. La rinuncia delle scienze positive a radicalizzarsi nella teleologia della verità e della libertà è il fallimento delle scienze stesse innanzi ai compiti grandiosi che si pongono «nella prospettiva soggettiva, cioè quando si considera il pensiero che giudica, conosce, cerca»”[2].

Proseguendo su questa linea, arriviamo a constatare come dietro le quinte dell’odierno globale “teatro della Tecnica e delle scienze” si ponga in sostanza una forma aggiornata e più agguerrita del Relativismo antico.

In particolare, dietro la facciata della (presunta) “esattezza matematica” di cui le scienze vanno comprensibilmente fiere, si sta scivolando in una sorta di doppiamente ingiustificato “fideismo scientifico”: da un lato ingiustificato nell’ottica di un approccio razionale all’epistemologia (le scienze sono infatti per definizione sempre perfettibili: la loro storia lo dimostra) e dall’altro ingiustificato in quanto ennesima forma di relativismo mascherato che per di più pretende di imporsi assurdamente come unica verità (il cui assunto implicito pretende di affermare che non esista verità assoluta, al di là della verità relativa che la scienza è in grado di mostrare nella storia). In altre parole, si afferma ciò che viene negato: l’approccio scientista pretende di essere custode ultimo della conoscenza e quindi della verità sul mondo che si dà nella storia, ma dall’altra parte la storia stessa mostra in modo incontrovertibile il carattere incompleto e mai definitivo di ogni acquisizione scientifica. Perfino la matematica – regina delle scienze in quanto unica in grado di dimostrare in senso forte – è sostanzialmente incompleta: una storia senza fine, quindi, un interminabile work in progress (si vedano a questo proposito la dimostrazione dei due teoremi di incompletezza dei Kurt Gödel).

Il fideismo scientista si pone così come braccio armato del Relativismo contemporaneo, conducendo le scienze ad un preoccupante smarrimento d’identità, di senso e di fini, e costringendole ad una grossolana ingenuità, come anche Semerari ricorda, inaridendosi al punto da non poter più esprimere il senso che è proprio dell’esistente compreso nel loro orizzonte.

Ricordiamo per inciso che, al contrario, la Fenomenologia pone la sua attenzione al di là dei meri “fatti”, cercando nella varietà dei nostri orizzonti fattuali il valore del fatto stesso: al di là del fatto e attraverso la sua epoché metodologica – la sospensione teleologica del giudizio circa l’esistenza stessa del mondo – la Fenomenologia ne indaga l’origine, intesa non come costituzione causale ma piuttosto come genesi trascendentale (detto in altri termini: struttura ideale dei fenomeni). E da qui si può inferire che è proprio sospendendo il “fatto” contingente che la Fenomenologia è in grado di perseguire la chiarificazione oggettiva del vero e del bene essenziali (quindi di un’etica formale), ritrovando nella centralità della coscienza l’orizzonte del conoscere, del pensare e del significare le essenze ideali, cioè la obbiettività originaria e costitutiva, anche del mondo etico e quindi compreso il giudizio circa la finalità, il senso, lo statuto delle scienze positive.

Non occorre certo uno sguardo straordinariamente attento sul circostante per rendersi conto di quanto siamo ancora oggi distanti da questo progetto razionale (che nelle intenzioni di Husserl avrebbe dovuto costituire il terreno di rifondazione tanto della Filosofia intesa come scienza rigorosa, quanto di un’etica formale intesa come traduzione empirica delle verità ideali cui l’umanità tende).

L’unica ragione che oggi viene percepita come “vera”, infatti, è ridotta oggi più che mai a quella specifica forma di razionalità che si è imposta a partire dalla Rivoluzione Scientifica e che ha nella figura di Galileo Galilei il suo massimo eponimo. Stando a questa forma razionale il mondo risulta regolato e dunque comprensibile solo in base a leggi assolute e si pone quindi come un gigantesco ente meccanicamente regolato e sostanzialmente autonomo rispetto al soggetto che lo percepisce.

In questo quadro parlare di verità significa dunque ridursi idealmente e metodologicamente ad una sola prospettiva, quella quantificante. Detto in altri termini, si pretende che la verità obiettiva del mondo sia solo quella esprimibile in termini matematico-geometrici, mentre tutto il resto viene relegato e confinato all’ambito della soggettività individuale, delle opinioni personali, che dunque mai hanno diritto di assurgere a descrizione scientificamente fondata del mondo. Ma, come abbiamo già detto, pretendere di presentare le scienze come dottrine della verità è una grossolana svista logica, storica ed epistemica: le scienze non sono matematica pura (non dimostrano in modo incontrovertibile).

Ricordiamo a questo proposito – sempre di passaggio – quanto scriveva Karl Popper in La logica della scoperta scientifica[3]:

La scienza non è un insieme di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, e non è neppure un sistema che avanzi costantemente verso uno stato definitivo. La nostra scienza non è conoscenza (epistème): non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità, come la probabilità”.

Ora, di questa profonda crisi delle tecno-scienze – di identità, di scopi e di obiettivi – così strettamente correlata alla crisi della coscienza europea, Edmund Husserl era già perfettamente consapevole negli anni ‘30 del secolo scorso.

Leggiamo un suo significativo passaggio:

“Quella ‘crisi dell’esistenza europea’ di cui oggi tanto si parla, e che è documentata da innumerevoli sintomi di dissoluzione, non è un oscuro destino, non è una situazione impenetrabile; essa diventa comprensibile e trasparente sullo sfondo di quella teleologia della storia europea che la filosofia è in grado di illuminare. Ma la premessa di questa comprensione è che si riesca innanzitutto a cogliere il nucleo essenziale e centrale del fenomeno ‘Europa’. Per penetrare il groviglio della ‘crisi’ attuale, era indispensabile elaborare il concetto Europa in quanto teleologia storica di fini razionali infiniti; era indispensabile mostrare come il mondo europeo sia nato da idee razionali, cioè dallo spirito della filosofia. La crisi poté così rivelarsi come un apparente fallimento del razionalismo. Ma la causa del fallimento di una cultura razionale sta — come abbiamo detto — non nell’essenza del razionalismo stesso ma soltanto nella sua manifestazione esteriore, nel suo decadere a ‘naturalismo’ e a ‘obiettivismo’. La crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo. Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, in quanto ‘buoni europei’, in quella vigorosa disposizione d’animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno; allora dall’incendio distruttore dell’incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione dell’Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità: perché soltanto lo spirito è immortale”.

Con questo invito a contrastare la crisi spirituale che ha investito l’Occidente, Edmund Husserl concludeva la conferenza del 7 maggio 1935 in un centro culturale di Vienna sulla crisi dell’Europa[4].

Recuperare e riproporre un approccio fenomenologico rispetto alle sfide che l’avanzata delle tecno-scienze porta con sé significa riproporre l’urgenza di un dibattito razionale non solo sulla scienza ma anche in seno all’etica ed in particolare – come oggi è chiarissimo – alla bioetica. Perché del destino umano, non del progresso scientifico si tratta.

In quanto descrizione analitica del circostante, proprio la prassi fenomenologica è l’antidoto più potente per contrastare quell’infiacchimento del pensiero e quel trascinamento globale, agli ordini del (presunto) Progresso, che tutti oggi noi subiamo. La Fenomenologia batte fin dall’inizio il chiodo dell’autentico-umano e, con essa, si rinnova il principio classico della filosofia occidentale della identità di scienza ed etica, per cui la ricerca del rigore scientifico è ad un tempo elevazione e impegno etico: solo da qui possiamo ritrovarci nella nostra identità di esseri razionali e responsabili di fronte alla vita, al proprio destino personale e al destino della comunità.

Come scriveva Husserl, infatti:

“[…] se noi non possiamo separare il regno autentico dell’umano e la vita vissuta nella responsabilità radicale di sé, e conseguentemente se non possiamo separare la responsabilità scientifica dalla totalità delle responsabilità della vita umana in generale – allora noi dobbiamo dominare questa vita totale e questo insieme di tradizioni culturali e con prese di coscienza radicali ricercare per noi, in quanto esseri isolati e in quanto esseri che fanno parte di una comunità, le possibilità, e le necessità ultime a partire dalle quali noi possiamo prendere posizione verso la realtà nel giudicare, valutare e agire”[5].

Se Husserl aveva e ha ancora ragione (e d’altra parte la sua profezia si è pienamente realizzata, quindi già solo per questo dovrebbe meritare la nostra massima attenzione), la crisi delle scienze europee, che a sua volta porta con sé una straordinaria crisi morale, mostra le sue radici nell’abbandono del progetto di epistéme e dell’originario progetto di Filosofia che aveva segnato l’origine della storia del pensiero occidentale.

Il lungo affermarsi di quel modello di scienza e di conoscenza proposto dai filosofi moderni (come Galilei), ha portato al decadimento della coscienza soggettiva e sociale e costituisce, a giudizio di Husserl, un vero e proprio tradimento del progetto originario di filosofia intesa come scienza universale, in grado di indicare – da Platone in poi – il vero e il bene per l’umanità intera. Elevando a criterio di scientificità la traducibilità dell’esperienza in termini matematici o in rapporti quantitativi, gli scienziati-filosofi moderni hanno allontanato dall’orizzonte delle scienze tutto ciò che non poteva essere espresso secondo parametri numerici (come la libertà, la dignità, i valori, la felicità, il destino umano), oppure hanno cercato di ricondurre anche questi temi ai rigidi e riduttivi schemi della ragione geometrica. L’esprit de géométrie, come direbbe Pascal, ha prevalso su tutto. Ma la riduzione dell’umano a fattuale e da qui a materiale, ha portato tutti noi alla convinzione inconsapevole di poter essere trattati come cose. Relegate le questioni metafisiche e valoriali al di fuori della scientificità, lo studioso moderno si è dedicato al perfezionamento del suo metodo di indagine; in questo modo ha però avviato l’umanità verso una crisi di valori nella quale sono coinvolti tutti i saperi, che hanno smarrito il loro senso, la loro identità, e si sono così resi operativi come strumenti di dominio al servizio di un Potere profondamente nemico dell’uomo. Oggi lo vediamo nella sua declinazione economica – perché forse è la più evidente – ma a ben vedere si tratta forse di una forza ben più generale, che agisce a più livelli.

Scriveva  Husserl con lucidità profetica:

“Con la progressiva e sempre più perfetta capacità di conoscere il tutto, l’uomo consegue anche un dominio sempre più perfetto sul suo mondo pratico circostante, un dominio che si amplifica attraverso un progresso infinito. Ciò implica anche il dominio sull’umanità che rientra nel mondo reale circostante, e quindi anche il dominio su se stessi e sugli altri uomini, un dominio sempre maggiore sul proprio destino, e così una ‘felicità’ sempre più perfetta, quella felicità che gli uomini possono in generale concepire razionalmente. Perché anche nell’ambito dei valori e del bene si può giungere a conoscere il vero in sé. Tutto ciò rientra nell’orizzonte di questo razionalismo, ne è una conseguenza ovvia. […] Il filosofo infatti, matematizzando il mondo e la filosofia, ha correlativamente idealizzato se stesso e insieme dio”[6].

Quindi se da un lato dobbiamo cooperare per il progresso scientifico, apprezzando la storia evolutiva delle scienze (prime fra tutte matematica e fisica, come lucidamente riconosce lo stesso Husserl: “[…] È tuttavia indubbio che il massimo progresso dell’ideale dell’universalità e della razionalità della conoscenza avviene nella sua sede originaria: nella matematica e nella fisica. Naturalmente ciò presuppone che, come risulta dalle nostre precedenti analisi, tutto ciò venga portato a una vera autocomprensione e che venga liberato da qualsiasi travisamento di senso”[7]), dall’altra dovremmo recuperare il senso e il fine della riflessione critica sul circostante e quindi della Filosofia.

A me sembra chiaro che – proprio sulla base del richiamo profetico di Edmund Husserl – questo recupero di senso e di scopo non possa che avvenire prima di tutto sul piano individuale: a partire dalla propria libera analisi del circostante e quindi dalle proprie letture, dal proprio studio, dal proprio lavoro e dal proprio impegno nella comunità e soprattutto dalla messa in questione, in prima persona, di tutte le pseudo-verità che la vulgata collettiva oggi ci impone di accettare per vere, senza possibilità di critica.

Alessandro Benigni

[1] Cfr. N. Chomsky, E. Herman, La fabbrica del consenso, Il Saggiatore, 2014

[2] G. Semerari, Responsabilità e comunità umana. Ricerche etiche, Lacaita, Manduria 1966, pp. 123 e seguenti

[3] Cfr. K. Popper in La logica della scoperta scientifica, Einaudi, 1995

[4] Pubblicata nel 1937 col titolo La crisi dell’umanità europea e la filosofia: qui il link per una lettura diretta del testo, nella traduzione di Enzo Paci.

[5] Citato in G. Semerari, Responsabilità e comunità umana. Ricerche etiche, Lacaita, Manduria 1966, pp. 123 e seguenti

[6] E. Husserl, 1959, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961, pp. 94-95

[7] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961, p. 95

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Docente di filosofia e autore del blog "Ontologismi".

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