La Siria nel mirino

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Nel momento in cui la disinformazione su quanto avviene in Siria è massima, Giacomo Gabellini, basandosi su prove documentali, racconta i fatti.

Il progetto USA di sottomettere la Siria ha attraversato sette presidenze.

La Siria nel mirino

Di Giacomo Gabellini

Nel febbraio 2016, gli Stati Uniti hanno declassificato alcuni documenti della Cia risalenti agli anni ’80 da cui si evince come gli apparati dirigenziali di Washington fossero già all’epoca fortemente interessati a rovesciare il governo baathista siriano. In un documento della Cia datato 1986 si individuano nella cerchia ristretta di Hafez al-Assad, nell’esercito, e nella Fratellanza Musulmana – erroneamente identificata come il movimento capace di riunire al proprio interno la maggioranza della comunità sunnita – gli attori più influenti del teatro siriano ed elenca una serie di stratagemmi utili a rovesciare il governo e sostituirlo con un establishment più bendisposto nei confronti degli interessi occidentali facendo leva sulle contraddizioni interne al Paese. I metodi indicati variano dall’istigazione di un golpe militare alla fomentazione di disordini pubblici. Nello specifico, il documento sottolinea che

«la dissidenza sunnita è stata ridotta ai minimi termini da quando Assad ha annientato la Fratellanza Musulmana nei primi anni ’80, ma permangono comunque tensioni fortemente radicate che mantengono vivo il potenziale destabilizzante. In tale contesto, gli incidenti minori possono fungere da detonatori in grado di provocare significativi episodi di violenza comunitaria. Ad esempio, lo scontento per un aumento dei prezzi, gli alterchi tra cittadini sunniti e forze di polizia o la rabbia nei confronti dei privilegi accordati agli alawiti a detrimento dei sunniti potrebbero essere sfruttati per istigare proteste su piccola scala. Una reazione spropositata per porre fine ai disordini da parte delle forze governative potrebbe essere interpretata dai sunniti come una sorta di vendetta del governo contro l’intera comunità sunnita, con conseguente allargamento della protesta ad altri settori di questa variegata galassia. Probabilmente, i commercianti e gli artigiani sunniti inscenerebbero proteste simili a quelle messe in atto negli anni precedenti, ad esempio chiudendo le imprese e i bazar di Hama o di Aleppo e anche di Damasco. Gli studenti sunniti organizzerebbero dimostrazioni nei campus e le associazioni professionali sunnite proclamerebbero degli scioperi. Scambiando l’insorgere della protesta come una rinascita della Fratellanza Musulmana, il governo intensificherebbe l’uso della forza lanciando violenti attacchi contro i leader della comunità sunnita e gli ispiratori delle proteste. Gli sforzi del regime per ristabilire l’ordine risulterebbero vani se le violenze del governo contro i manifestanti dovessero provocare una violenza collettiva diffusa tra alawiti e sunniti. Il degenerare della situazione potrebbe spingere anche i sunniti moderati a unirsi all’opposizione. I rimanenti leader della Fratellanza Musulmana – alcuni dei quali di ritorno dall’esilio in Iraq – potrebbero formare la leadership del movimento di protesta. Anche se il regime dispone delle risorse per schiacciare una simile impresa, crediamo che attacchi brutali contro civili sunniti possano spingere un gran numero di ufficiali e coscritti di fede sunnita a disertare o mettere in scena ammutinamenti a sostegno dei dissidenti, e l’Iraq potrebbe fornire loro armi sufficienti per lanciare un guerra civile».

Come si vede, la Cia tendeva a considerare la comunità sunnita, e la Fratellanza Musulmana in particolare, come il vero e proprio elemento critico della società siriana – anche per la sua caratteristica di essere “finanziabile” dall’esterno – su cui fare perno per allargare ed approfondire la fitna. Gli esperti di Langley pronosticarono quindi defezioni a catena e lo scoppio una guerra civile contrassegnata da linee di divisione squisitamente religiose. È proprio sulle fratture interne indicate nel documento del 1986 che gli Usa hanno fatto leva per destabilizzare la Siria, con una serie di manifestazioni di protesta organizzate da una serie di Ong nelle principali città siriane sull’onda della cosiddetta “primavera araba“. L’ambasciatore Robert S. Ford, il quale aveva ottenuto nel gennaio 2011, quando gli Usa decisero di riaprire gli uffici di rappresentanza che erano stati chiusi nel 2005, colse immediatamente l’occasione per sfilare nelle strade di Hama assieme ai manifestanti (luglio 2011). A partire da quel momento le proteste iniziarono ad imboccare una deriva violenta, con anonimi cecchini vestiti di nero che cominciarono a sparare sia contro i dimostranti che contro le forze di polizia, conformemente a uno schema operativo messo in atto nelle fasi cruciali dei disordini verificatisi in Romania nel 1989, in Russia nel 1993, in Venezuela nel 2002, in Thailandia e Kirghizistan nel 2010, in Tunisia, Egitto e Libia nel 2011 e in Ucraina nel 2014, quando tiratori mai identificati aprirono il fuoco sia sulla folla che sulla polizia.

Secondo Michel Chossudovsky, Ford può essere ritenuto il vero e proprio responsabile della degenerazione della situazione in Siria, poiché «come “numero due” presso l’ambasciata Usa di Baghdad nel 2004/2005 sotto la guida di John D. Negroponte, giocò un ruolo chiave nell’attuazione dell’Opzione Salvador in Iraq del Pentagono. Quest’ultimo consisteva nel sostenere gli squadroni della morte iracheni e le forze paramilitari sulla base dell’esperienza maturata in America centrale». A Baghdad, Ford e Negroponte riuscirono, con l’aiuto del generale David Petraeus, a spezzare la resistenza irachena contro gli invasori attraverso la manipolazione di gruppi fondamentalisti sunniti in funzione anti-sciita. Gli attentati contro le moschee sciite orditi da compagini terroristiche come quella facente capo ad Abu Musab al-Zarqawi innescarono una catena di rappresaglie contro i sunniti che ha portato alla divisione settaria e alla sanguinosissima guerra civile foriera di morte e immani distruzioni.

Nel teatro siriano, Ford si adoperò per la creazione di un Consiglio Nazionale di Transizione con sede in Turchia poiché, come recitava il documento del 1986, la situazione ideale per gli Stati Uniti avrebbe coinciso con la sostituzione di Assad con un «regime sunnita controllato da moderati orientati al business». Il riferimento era chiaramente rivolto ai Fratelli Musulmani, giudicati molto più inclini rispetto al regime baathista ad adottare un approccio cooperativo con le potenze occidentali.

Ciononostante, gli Usa furono costretti a correggere rapidamente il tiro e fare affidamento su jihadisti stranieri da importazione alla luce della sostanziale indisponibilità del popolo siriano a essere trascinato in una guerra civile di matrice religiosa analoga a quella scoppiata in Algeria negli anni ’90. A ciò contribuì anche l’attivismo di Assad, il quale invocò il dialogo con le forze d’opposizione e accettò di revocare lo stato di emergenza in vigore ormai dal 1963, di abolire i tribunali speciali e di assicurare il diritto a manifestare pacificamente. Al termine dei negoziati, boicottati dal Consiglio Nazionale di Transizione siriano, fu inoltre indetto – e approvato dai votanti – un referendum costituzionale comprendente una serie di riforme di un certo rilievo riguardanti l’ordinamento statale e l’approccio economico da adottare.

Washington decise quindi di rispolverare il modello operativo messo in atto negli a partire dal 1979, quando la Cia organizzò una rete di reclutamento internazionale di jihadisti finanziata dall’Arabia Saudita e gestita dall’Isi pakistano che fece arrivare in Afghanistan centinaia di migliaia di guerriglieri dall’intera galassia sunnita per contrastare l’invasione dell’Armata Rossa. L’unica differenza tra il caso afghano e quello siriano e che rispetto a quest’ultimo è stata la Turchia, e non il Pakistan, a fungere da addestratrice degli aspiranti combattenti e da “autostrada della Jihad”. Per il resto, la Cia ha continuato a tenere saldamente le redini delle operazioni, mentre le monarchie del Golfo Persico asserragliate dietro all’Arabia Saudita hanno fornito denaro, armi e altre forme di sostegno alle forze islamiste. All’interno di un documento – ora declassificato – redatto per conto del Pentagono dalla Defense Intelligence Agency (Dia) nell’agosto del 2012, si identificava nei gruppi islamisti radicali supportati dalla Turchia e dai Paesi del Golfo Persico il nucleo dell’insorgenza siriana, e si accoglieva con favore la prospettiva di un principato salafita a cavallo tra Siria orientale ed Iraq in sostituzione del regime siriano, considerato «la profondità strategica dell’espansionismo sciita». Il ruolo cruciale della Turchia è andato peraltro a sommarsi a quello di Israele, come previsto da uno studio sottoscritto nel 1983 dal noto agente Cia Graham Fuller (colui che garantì la green card al potente “chierico” turco Fethullah Gülen) in cui si evidenziava che

«attualmente, la Siria ostacola fortemente gli interessi degli Stati Uniti sia in Libano che nel Golfo Persico attraverso la chiusura del gasdotto in Iraq, cosa che minaccia di provocare l’internazionalizzazione della guerra tra Iran ed Iraq [che vide il governo di Hafez al-Assad schierarsi a fianco di Teheran]. Gli Stati Uniti dovrebbero seriamente prendere in considerazione la possibilità di intensificare le pressioni contro Assad spingendo i tre Stati ostili che confinano con essa – vale a dire Iraq, Israele e Turchia – a orchestrare pesanti minacce militari contro Damasco […]. Se Israele dovesse esacerbare le tensioni contro la Siria simultaneamente a un’iniziativa irachena, le pressioni su Assad diverrebbero rapidamente insostenibili. Rispetto a ciò, una mossa turca fornirebbe un contributo essenziale dal punto di vista psicologico».

Del coinvolgimento di Israele si è parlato anche in un documento pubblicato nel 2012 dalla Brookings Institution, secondo cui:

«gli esperti di Washington e Gerusalemme stanno esplorando la possibilità che Israele contribuisca a influenzare le élite siriane per rovesciare Assad […]. Israele potrebbe schierare proprie forze in prossimità delle alture del Golan. Questo posizionamento potrebbe evocare le paure nel regime di Assad in relazione allo scoppio di una guerra su più fronti, specialmente se la Turchia fosse disposta a fare lo stesso sul suo confine e l’opposizione siriana venisse alimentata con una flusso costante di armi e addestratori. Una simile mobilitazione potrebbe forse convincere la leadership militare della Siria a scalzare Assad al fine di preservare il potere».

Gli schemi tendono quindi a ripetersi, visto e considerato che la Cia ha tentato di replicare il piano operativo predisposto nel 1983, con la differenza che se allora si trattava di costringere Hafez al-Assad a riaprire un oleodotto ritenuto vitale nell’ambito del confronto militare tra Iran e Iraq, nel 2011 l’obiettivo era quello di rovesciare il governo di Bashar al-Assad, reo di aver accordato all’Iran l’autorizzazione al transito in territorio siriano di un gasdotto volto a trasportare sul Mediterraneo il gas estratto dal giacimento South-Pars-North Dome. Quest’ultimo si estende nei fondali del Golfo Persico ed è condiviso dall’Iran con il Qatar, che aveva a sua volta proposto a Damasco una propria conduttura ricevendo tuttavia una risposta negativa da parte di Assad il quale chiarì che non intendeva danneggiare l’alleato russo. Il problema non può tuttavia essere ridotto a questo, visto e considerato che la Siria rappresenta un alleato cruciale della Russia nonché la corda tesa dell’arco sciita che collega l’Iran degli Ayatollah al Libano degli Hezbollah, passando per l’Iraq post-Saddam. Un’alleanza fortemente sgradita sia a Israele che all’Arabia Saudita che agli Usa, perché l’Iran rappresenta una forza anti-egemonica emergente dotata di tutte le potenzialità per accreditarsi come centro di gravità geopolitico nel quadrante mediorientale. Per la Persia, vale quanto affermato da Luttwak rispetto a Saddam:

«Saddam Hussein non è come i principi sauditi che trascorrono la maggior parte della loro vita al di fuori del proprio Paese, e che sperperano i profitti petroliferi in prostitute e bottiglie di champagne a Parigi. No, Saddam edificava ferrovie! Costruiva reti elettriche, autostrade e tutte le principali infrastrutture di uno Stato degno di esser chiamato tale! […]. [Sotto di lui], l’Iraq si sarebbe potuto trasformare nella potenza tecnologicamente più avanzata della regione, e noi non potevamo permettere che ciò accadesse».

Non è infatti un caso che, nonostante le operazioni contro la Siria siano scattate nel 2011 sotto l’amministrazione Obama, le basi per la riuscita del piano erano state gettate nel 2007 dal governo guidato da George Bush jr., come dimostrato dal celebre giornalista investigativo Seymour Hersh. Ne consegue che il conflitto siriano è il frutto di sforzi ultradecennali profusi dagli Stati Uniti per eliminare gli Assad. Dalla “formazione” dei leader d’opposizione, avviata molto prima dello scoppio delle proteste, alla costituzione di una forza militare mercenaria internazionale, la longa manus degli Stati Uniti emerge in maniera lampante.

Come scriveva nel 2016 il lucido analista Tony Cartalucci:

«il fatto che una concertata e continua operazione volta a manipolare gli eventi in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa nell’ambito del progetto di egemonia Usa su tutta la regione si estende ora a sette presidenze americane, indica con ogni probabilità che ci sono degli interessi particolari profondamente radicati – uno “Stato profondo” – che porta potentati americani non eletti a condurre la politica degli Stati Uniti sia in casa che all’estero. L’idea che il presidente degli Stati Uniti recentemente eletto, Donald Trump, possa, sia disposto a, o sia in grado di opporsi d’un tratto agli immensi interessi corporativo-finanziari che sostengono un progetto in atto ormai da tre decenni è priva di qualsiasi fondamento».

Lo dimostra anche la disperata ricerca, da parte degli apparati di potere intenzionati a rovesciare Assad, di un casus belli in grado di giustificare un intervento militare contro la Siria analogo a quello lanciato nel 2011 contro la Libia. Al perseguimento di questo obiettivo ha fortemente contribuito la Turchia, in primo luogo invocando l’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica (che prevede l’intervento militare di tutti i Paesi che aderiscono all’alleanza in caso di attacco ad uno qualsiasi degli Stati membri) in seguito all’abbattimento di un caccia turco che nel giugno 2012 aveva violato lo spazio aereo siriano. L’episodio più significativo risale tuttavia al 2014, quando il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu fu segretamente registrato mentre dialogava con alcuni alti funzionari del Mit riguardo alla della possibilità di elaborare soluzioni valide a giustificare un attacco diretto turco alla Siria. Il file finì ben presto nelle mani della stampa, scatenando un vero e proprio putiferio. Successivamente, Can Dündar, direttore del quotidiano «Cumhuriyet», pubblicò un dettagliato articolo in cui si documentava la sistematica fornitura di armi ai gruppi islamisti in Siria da parte di Ankara, attraverso camion scortati da agenti del Mit. Istigata da Erdoğan, la magistratura turca mise immediatamente Dündar sotto indagine per spionaggio.

Ed è sempre al medismo allo scopo di legittimare una guerra contro la Siria che risponde l’incredibile can-can attorno all’uso, reale o presunto, delle armi chimiche sorto a partire dall’agosto 2013, quando i ribelli siriani sferrarono un devastante attacco chimico sugli abitanti di Ghouta cercando di far ricadere la responsabilità della strage sulle forze governative. Stati Uniti e Gran Bretagna incolparono immediatamente Bashar al-Assad sulla base dei contenuti di una presunta intercettazione telefonica captata dalla Unit 8200 israeliana, la cui autenticità è ancora oggi oggetto di discussione. Dalle informative diffuse riguardo alla registrazione, sarebbe emerso un concitato dialogo focalizzato sulla strage tra uno spaventatissimo alto funzionario del Ministero della Difesa siriano e il direttore dell’ufficio responsabile dei gas chimici. La cosiddetta “linea rossa”, il limite oltre il quale Obama in persona aveva dichiarato che gli Usa sarebbero «intervenuti con la forza a difesa del popolo siriano», era stata ormai oltrepassata.

L’attacco militare statunitense fu sventato grazie alla tempestiva entrata in gioco della Russia che, dopo aver posto (assieme alla Cina) una serie di veti alle proposte degli euro-statunitensi miranti ad incrementare la pressione militare su Damasco, mise in campo una rapida azione politica e diplomatica capace non solo di dimostrare che non esistevano prove tangibili a supporto della tesi che identificava nelle forze governative i responsabili dell’uso di armi chimiche, ma anche di strappare l’impegno statunitense a non lanciare operazioni militari future in Siria in cambio della distruzione dell’arsenale chimico da parte di Assad. L’inganno fu smascherato mesi dopo da Seymour Hersh, il quale, facendo riferimento a un rapporto dell’intelligence britannica, rivelò che il gas sarin impiegato durante l’attacco a Ghouta non proveniva dalle scorte di Assad, come sosteneva il Dipartimento di Stato Usa, ma dai depositi di Gheddafi conquistati dai ribelli libici nel 2011. I contenitori sarebbero quindi stati trasferiti in Siria attraverso la “rat line“, sotto la supervisione del Mit turco. Tesi confermata un mese dopo da un rapporto redatto per conto del Massachusetts Institute of Technology da due specialisti incaricati di far luce sull’accaduto. Nel suo articolo, Hersh parlò anche di un accordo segreto raggiunto nel 2012 tra l’amministrazione Obama e i leader di Turchia, Arabia Saudita e Qatar per orchestrare un attacco chimico da attribuire ad Assad, in modo che gli Stati Uniti potessero ottenere il casus belli necessario a giustificare l’intervento volto a rovesciare il governo siriano. L’ex agente della Cia Larry Johnson ha confidato all’emittente «Russia Today» che l’intesa rimase valida quantomeno per i tre anni successivi, con svariati tentativi – supportati dalle commissioni delle Nazioni Unite incaricate di indagare sull’accaduto – di incolpare il governo siriano dell’uso di armi chimiche sulla popolazione. Sforzi che sono però andati incontro a un sostanziale fallimento, a causa del fatto che «Assad disponeva di gas nervini binari, che occorreva mescolare per ottenere un agente letale. Ma l’arsenale chimico in possesso di Damasco è stato distrutto con l’assistenza della Russia. I ribelli, in particolare Da’ish ed al-Nusra, hanno invece usato cloro e iprite per fornire agli Stati Uniti e ai loro alleati il pretesto per intervenire militarmente in Siria».

Le stesse accuse relative all’uso di armi chimiche contro la popolazione vengono ripetute in questi giorni, senza che venga fornita alcuna prova a supporto e benché Assad abbia ormai virtualmente vinto la guerra contro il fronte islamista. Paradigmatico, riguardo allo “stato dell’arte” in seno allo schieramento occidentale, è il fatto che l’annuncio di Macron – novello Sarkozy – di disporre delle prove che incriminerebbero Assad per l’attacco sia stato pronunciato mentre lo stesso capo del Pentagono James “mad dog” Mattis ammetteva che non esistevano indizi sufficienti per dissipare i dubbi in proposito. Il che non ha naturalmente impedito a Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna di portare un “attacco mirato” contro presunti impianti chimici che – un po’ come quello sferrato da Trump poco più di un anno fa – tende a configurarsi come una mossa simbolica destinata a lasciare inalterato il quadro strategico del conflitto. È possibile che, per qualche istante, gli Usa abbiano valutato la possibilità di predisporre un attacco su larga scala ma la ferma presa di posizione di Mosca li abbia costretti ad accontentarsi di una ben più blanda e limitata operazione – molti dei missili lanciati sarebbero stati intercettati dalla contraerea siriana formata dai vecchi sistemi russi S-125, S-200, Buk e Kvadrat  (i 12 Cruise indirizzati contro l’aeroporto militare di al-Dumayr sarebbero stati tutti intercettati) – utile soltanto ad uscire dal vicolo cieco in cui si erano infilati con la loro retorica guerrafondaia portata avanti a colpi di tweet sempre più grotteschi senza perdere completamente la faccia. Putin e Lavrov hanno comunque messo in chiaro che l’azione non resterà senza conseguenza. Tanto più che, alla vigilia dell’attacco, la stessa diplomazia russa aveva dichiarato pubblicamente di aver raccolto prove schiaccianti a conferma del fatto che l’attacco chimico su Douma sarebbe in realtà una messa in scena organizzata dalla Gran Bretagna, che solo pochi giorni prima aveva accusato Mosca di aver ordinato l’avvelenamento, su suolo britannico, dell’ex agente del Gru Sergeij Skripal e di sua figlia. nonostante la stessa polizia inglese avesse rifiutato di avvalorare le sparate del ministro degli Esteri Boris Johnson secondo cui dietro al tentato assassinio c’era la longa manus di Mosca. Attualmente, Skripal e sua figlia si sono ripresi quasi completamente, benché il gas Novichok che a detta di Londra sarebbe stato usato per avvelenarli fosse assolutamente letale. Proprio in questi giorni, un laboratorio indipendente svizzero a cui era stato fornito un campione della sostanza impiegata per l’avvelenamento ha assicurato che si tratta di un gas fabbricato in diversi Paesi membri della Nato, e non in Russia. L’assenza di qualsiasi riscontro in grado di supportare le pesantissime accuse lanciate dalla May e da Johnson contro Mosca non ha tuttavia rappresentato un problema per lo schieramento euro-atlantico, deciso nel compattarsi istantaneamente attorno a Londra e nell’espellere ben 150 diplomatici russi come segno di protesta nei confronti del Cremlino.

È ormai da tempo, del resto, che l’accertamento della verità e il rispetto per le norme internazionali non rappresentano principi a cui Europa e negli Stati Uniti ritengono doveroso conformarsi.

 

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Giacomo Gabellini, scrittore e ricercatore di questioni storiche, economiche e geopolitiche. Ha pubblicato: “Eurocrack. Il disastro politico, economico e strategico dell’Europa“, “Caos – Economia, strategia e geopolitica nel Mondo globalizzato” – 2014, “Ucraina. Una guerra per procura” – 2016, “Israele. Geopolitica di una piccola, grande potenza” – 2017.

3 commenti

  1. Francesco Mandaglio on

    La storia si ripete. Come per la prima guerra mondiale Il popolo italiano non vuole entare in in guerra, nè contro la Siria, nè tantomeno contro Russia Cina ed Iran. La classe dirigente (informazione) sta spingendo in questo senso, inventandosi o di volta in volta tacendo o amplificando notizie per lo scopo. La classe politica, in buona parte, al momento non la vuole ma quanto riuscirà a resistere? Di Maio, degno del migliore De Mita, è passato da… questo paese non è libero perchè invaso militarmente dagli americani. Non sappiamo quante bombe atomiche abbiamo in casa… dobbiamo uscire subito dealla Nato etcc… alle dichiarazioni di ieri, degne dei migliori neocon americani. Temo che qualche mese fa, sciaqquando i panni in “Bruxelles”, Di Maio sia diventato il nuovo leader politico imposto agli italiani.

  2. Enzo Pennetta on

    Pensare che sulle questioni geopolitiche la verità sia quella dichiarata non solo dalla stampa ma dagli stessi governi rasenta ormai la più estrema delle ingenuità.
    La sensazione è che lo scollamento tra il pensiero di organi ufficiali, di stampa e governativi, e popolazione sia tale da preparare sviluppi imprevedibili.

    • Francesco Mandaglio on

      Ora per chi non si accontenta di verità preconfezionate, sul web, è più facile verficare le notizie che passano i vari tiggì. Questo è un vero guaio, per cui prevedo forti censure sul web.

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