Il declino socio-economico degli Stati Uniti

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Negli USA è stata distrutta la classe media, le prigioni fungono attualmente come una sorta di cassa integrazione e rinchiudono prevalentemente neri e ispanici.

 

 

Di Giacomo Gabellini

 

Un recente studio condotto dall’autorevole Pew Research Center ha rivelato che la classe media statunitense è in via di estinzione. I dati mostrano infatti che, per la prima volta da oltre un secolo, le famiglie della middle-class non costituiscono più la maggioranza della società.

La quota di ricchezza nazionale detenuta dalle famiglie a medio reddito nel 2014 ha raggiunto il 43% del totale, a fronte del 62% registrato nel 1970. Negli ultimi 15 anni, si è assistito a un abbassamento del 28%, mentre la porzione della ricchezza nazionale posseduta dalle famiglie a più alto reddito è aumentata dal 29 al 49%. Al 2016, il potere d’acquisto è diminuito del 32% rispetto al 1968, almeno un cittadino su 50 non ha alcuna fonte di guadagno e sopravvive solo grazie ai ‘buoni-pasto’ (food-stamp) e qualcosa come 50 milioni di persone  incombono in gravi difficoltà a mettere insieme pranzo e cena. Nel 2015, il 20% dei cittadini statunitensi in età adulta è finito stabilmente nel gruppo sociale a più basso reddito, rispetto al 16% del 1971. Nello stesso anno, la categoria dei maggiorenni statunitensi a più alto reddito riuniva il 9% del totale, a fronte del 4% conteggiato nel 1971.

Il risultato tangibile di questa divaricazione è che il 62% della popolazione non dispone di sufficienti risparmi per pagare la riparazione di un’auto o una spesa medica da 500 dollari, mentre la vendita di immobili continua ad essere lontana dai livelli antecedenti la crisi – il che non è strano se si pensa che gli unici impieghi creati dal 2009 in poi sono quasi esclusivamente part-time. Naturalmente, questo tipo di occupazione non può supportare né la creazione di nuclei familiari né l’acquisto di nuove automobili o abitazioni. I dati sui salari confermano infatti che dal fallimento della Lehman Brothers non si è verificata alcuna crescita degli stipendi, come certificato dal fatto che l’aumento del salario nominale medio per ora lavorata è a malapena sopra l’obiettivo di inflazione della Federal Reserve, anziché al livello di sicurezza fissato dalla Yellen, corrispondente più o meno al 4%. Come nota il sempre ben informato sito d’analisi economica e finanziaria ‘Zero Hedge, la situazione appare molto più preoccupante se si prende in esame l’andamento dei salari di quelli che il Bureau of Labor of Statistics (Bls) classifica come ‘impiegati nella produzione in ruoli non dirigenziali’. Questo gruppo comprende ruoli lavorativi quali impiegati d’ufficio, negozianti, autisti, medici, infermieri, avvocati, ragionieri, insegnanti, estetisti, musicisti, ristoratori, custodi, camerieri, braccianti, bidelli, guardiani e altri lavoratori situati a livelli occupazionali simili. La caduta libera dei salari dell’80% della forza lavoro a fronte di un andamento generale delle retribuzioni stabile indica che gli stipendi del rimanente 20% degli occupati, che il Bls classifica come ‘dirigenti’, è in fase di grande crescita.

All’incremento del divario salariale va inoltre sommato un livello di disoccupazione decisamente preoccupante, che le statistiche ufficiali non riflettono. La disoccupazione, che rappresenta uno degli indicatori principali presi in esame dalla Federal Reserve per valutare lo stato dell’economia, viene calcolata dalla Federal Reserve con il tasso U3, il quale tiene conto del totale dei disoccupati in percentuale rispetto alla forza lavoro. Il Bls, prendendo in esame un bacino più ampio, ottiene invece un tasso denominato U6, che si calcola sommando al tasso U3 gli individui che lavorano part-time ma che vorrebbero lavorare a tempo pieno oltre alle persone che hanno lavorato per un certo periodo negli ultimi 12 mesi ma che al momento non lavorano né sono alla ricerca di un’occupazione e soffrono di questa condizione disagiata determinata dal particolare stato del mercato del lavoro. Prima del 1994, lo stesso Bls utilizzava però un metro ancora diverso, che consentiva di esprimere un tasso di disoccupazione che sommava all’U6 tutti i lavoratori scoraggiati di lungo termine. Continuato ad utilizzare questo metro per calcolare il tasso di disoccupazione, l’autorevole economista John Williams ha riscontrato che dal 2009 in poi i tassi U3 ed U6 hanno registrato un andamento declinante, mentre il tasso di disoccupazione calcolato con il vecchio metodo ha disegnato una traiettoria rialzista, che porta il coefficiente di disoccupazione ben oltre il 20%.

I più colpiti da questa situazione sono come sempre i giovani. E il potenziale distruttivo della disoccupazione giovanile presente all’interno degli Usa è enorme, poiché i cittadini in giovane età che faticano a trovare un lavoro – anche a causa dello scollegamento, molto marcato in alcuni Paesi, tra l’apparato educativo e la realtà economica – tendono ad accontentarsi di salari più bassi e di contratti precari pur di trovare un’occupazione, cosa che li espone costantemente al rischio di rimanere senza lavoro e che, soprattutto, determina il trasferimento della loro condizione di sfavoriti ai discendenti, innescando un circolo vizioso che incide profondamente sull’equilibrio sociale interno. Negli Stati Uniti, infatti, la popolazione carceraria tende ad aumentare regolarmente durante periodi di crisi economica perché oltre oceano la prigione funziona come una sorta di cassa integrazione (che negli Stati Uniti non esiste). Dai dati pubblicati dall’autorevole ‘Prison Policy, la percentuale dei cittadini di pelle nera detenuti supera quella vigente nel 1850, quando ancora i neri non godevano dello status di cittadini ma erano soltanto schiavi. I neri e gli ispanici coprono una larga maggioranza degli oltre 6 milioni di statunitensi che si trovano sotto ‘sorveglianza correzionale’ (detenzione o libertà vigilata, o con diritti decurtati per un reato).

 Nel 1980, negli Usa c’erano 220 detenuti ogni 100.000 cittadini; nel 2013, i carcerati sono saliti a 716 (record mondiale). Dall’inizio degli anni ’80, i fondi pubblici per il sistema carcerario sono cresciuti vertiginosamente, svariate volte quelli destinati all’istruzione – specie in un Paese cruciale e comunemente considerato all’avanguardia come la California. Sia l’aumento dei fondi statali al sistema delle prigioni che l’incremento esorbitante dei cittadini finiti in galera sono maturati nel quadro del processo di privatizzazione del comparto detentivo, grazie al quale si è verificata l’ascesa di una sorta di ‘complesso carcerario-industriale’ formato da imprese private che hanno beneficiato degli appalti per il servizio carcerario concessi dallo Stato. Questa lobby è in grado di esercitare una crescente influenza sulle autorità, spingendole a vanificare i numerosi tentativi di depenalizzazione del consumo di marijuana e ad inasprire le leggi anti-immigrazione, perché garantiscono un altissimo numero di detenuti che vengono poi impiegati ai lavori forzati. Le tre più importanti società che forniscono servizi di questo tipo sono  Cca, Geo Group e Cornell, le quali fanno lobby presso il Congresso o i parlamenti locali pretendendo norme più severe. Come ha documentato Nile Bowie, le imprese carcerarie «hanno contribuito con almeno 3,3 milioni di dollari a favore di partiti, candidati e loro comitati elettorali per influenzare la politica penale a livello federale […]. Più di 7,3 milioni sono stati distribuiti a candidati degli Stati dal 2001 […]. Senatori come Lindsay Graham e John McCain hanno ricevuto somme significative dai gruppi privati di prigionia; Chuck Schumer, presidente della Commissione Polizia di Frontiera e Immigrazione, ha ricevuto 64.000 dollari dai lobbisti […]. In cambio, i politici si sdebitano alla grande: il governo Obama ha stanziato 18 miliardi di dollari per la ‘repressione dell’immigrazione clandestina’, e di questi parecchi sono destinati alle imprese penitenziarie». Bowie cita anche uno scandalo scoppiato in Texas nel 2007, in cui sono rimasti coinvolti i controllori pubblici delle carceri minorili inviati nelle installazioni a controllare la qualità del servizio, i quali comparivano tutti sul libro paga della Geo Group. In diverse prigioni che avrebbero dovuto ispezionare, i detenuti minorili dovevano defecare in secchi di plastica per mancanza di bagni, l’alimentazione era tremenda, ai prigionieri erano negate sia le cure mediche che il contatto con gli avvocati e il 4-5% dei detenuti ha denunciato di esser stato vittima di aggressioni a scopo sessuale. Ma l’influenza del ‘complesso carcerario-industriale’ si era già manifestata in passato; quando l’amministrazione Clinton introdusse la legge che prevede l’applicazione della massima pena dopo tre recidive, il ‘complesso carcerario-industriale’ ha potuto disporre di intere schiere di individui responsabili di marginali reati di sopravvivenza da reclutare nella propria forza lavoro non (o scarsamente, nel migliore dei casi) retribuita. Una volta tornati in libertà, questi disperati non godono di diversi diritti civici, non hanno accesso ai servizi sociali e fanno maggiormente fatica ad introdursi nel mercato del lavoro, cosa che li induce a commettere altri reati, in un avvitamento capace di garantire ottime prospettive di guadagno ai colossi privati della detenzione.

Questa situazione ha indubbiamente favorito l’aumento esponenziale delle morti per suicidio, che nel 2010 hanno superato per la prima volta quelle causate da incidenti stradali (38.364 contro 33.687) coinvolgendo per un parte più che preponderante cittadini facenti parte della classe lavoratrice, cioè coloro che hanno subito l’impatto maggiore della crisi del 2007-2008.  Numeri del genere riflettono gli effetti del processo di ‘proletarizzazione’ cui la classe media Usa, che con i suoi posti di lavoro ben retribuiti e protetti da una solida rappresentanza sindacale è riuscita ad imporsi per decenni come avanguardia di un modello politico, economico e sociale vincente, è attualmente soggetta a causa di un sistema che favorisce l’arricchimento vertiginoso di una percentuale sempre più esigua della popolazione. L’aumento delle disparità di reddito, cui come è tragicamente normale si accompagnano disparità di altro genere, tende oggi più che mai ad infrangere l’immagine degli Stati Uniti come Paese ugualitario per eccellenza demolendo allo stesso tempo il mito del ‘sogno americano’ cui gli Usa devono buona parte del loro fascino internazionale. Il rapporto annuale dell’Oxfam ha inferto un ulteriore colpo di piccone al sistema vigente, imperniato sull’egemonia politica, economica e strategica statunitense. Nel documento si legge che: «la ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale – 3,6 miliardi di persone – è diminuita di un trilione di dollari dal 2010. Questo calo del 41% si è verificato nonostante la popolazione mondiale sia cresciuta di circa 400 milioni di persone in quel periodo. Nel frattempo, la ricchezza delle 62 persone più ricche è aumentata di più di mezzo trilione di dollari, fino a 1.76 trilioni di dollari». Allargando lo spettro dell’indagine, si scopre inoltre che la ricchezza detenuta dai 1.826 miliardari ammonta a 7,05 trilioni di dollari, in crescita dai 6,4 trilioni registrati nel 2015.

Un trend di questo genere non può che alimentare disagio sociale e disordini, se non una vera e propria sommossa, come ha rilevato il facoltoso gestore di hedge fund Nick Hanauer. In un articolo pubblicato dalla rivista liberal ‘Politico, Hanauer ha previsto che nel caso in cui la tendenza all’arricchimento della cima della piramide sociale dovesse rivelarsi strutturale e «se non facciamo qualcosa per risolvere le evidenti ingiustizie presenti in questo sistema economico, verranno a cercarci coi forconi. Nessuna società può sostenere questa crescente disuguaglianza. In realtà, non c’è esempio nella storia umana in cui sia stata accumulata ricchezza a questo modo e alla fine non siano arrivati i forconi». Il richiamo di Hanauer è tuttavia caduto nel vuoto soprattutto negli stessi Stati Uniti, che tendono ogni giorno di più ad assumere le fattezze di veri e propri ‘paradisi fiscali’ e dove le grandi banche hanno assunto dimensioni colossali continuando a tenere i medesimi comportamenti che una decina d’anni fa avevano notevolmente contribuito ad amplificato gli effetti della crisi. La classe politica Usa degli ultimi decenni non si è rivelata in grado di invertire o quantomeno frenare questi processi. Come scrive Robert Bridge su ‘Russia Today’: « dai luoghi di lavoro alle sale del potere politico, agli americani manca di certo la rappresentanza, che è alla base della loro attuale situazione ed è la ragione della tragica scomparsa della classe media americana una volta orgogliosa. Senza una classe media sana e robusta, l’America non solo regredirà allo stato di Paese del terzo mondo, ma sarà anche matura per un grave sconvolgimento sociale di una portata che non abbiamo mai visto». Da Ferguson a Baltimora, le avvisaglie di rivolta non sono certo mancate.

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Giacomo Gabellini, scrittore e ricercatore di questioni storiche, economiche e geopolitiche. Ha pubblicato: “Eurocrack. Il disastro politico, economico e strategico dell’Europa“, “Caos – Economia, strategia e geopolitica nel Mondo globalizzato” – 2014, “Ucraina. Una guerra per procura” – 2016, “Israele. Geopolitica di una piccola, grande potenza” – 2017.

20 commenti

    • Claude Liszt on

      Concordo con lo spirito del presente articolo di Gabellini. Purtroppo ho letto anch’io ieri quell’incredibile notizia del cocomero/anguria… Quando la realtà, ahimè, supera la fantasia dei romanzi.
      Del resto, gli USA sono un paese alquanto strano, anche quando è silente (vedi il caso Weinstein).

      • Ma io penso che molti dei problemi illustrati dall’articolo dipendano dallo stato disastroso dell’istruzione scolastica e universitaria. Ormai negli USA (cosa che sta avvenendo anche in Europa) le scuole e le università sono diventati dei veri e propri centri di indottrinamento, da cui escono perlopiù persone ignoranti e incapaci di ragionare. Una volta che queste persone saranno entrate nel mondo del lavoro e della politica cosa faranno? Solo disastri. Magari in perfetta buona fede, ma li faranno (come appunto illustra, nel suo piccolo, l’articolo sull’anguria).

      • Dici la storia dell’anguria? In pratica un pompiere, al suo primo giorno di lavoro, ha portato un cocomero in regalo ai suoi colleghi, e mal gliene incolse. Pare che il cocomero sia “offensivo” verso i neri (ma non ho capito perché) e visto che il 70% dei pompieri di quella stazione è nero, l’improvvido pompiere è stato accusato di razzismo e licenziato.
        La cosa interessante, però, è che se leggi i commenti sotto l’articolo, molti degli utenti (comprese persone del sud degli USA) sono rimasti sorpresi perché non sapevano di quest’accezione negativa del cocomero e anzi hanno spesso visto neri mangiarlo.
        Insomma, oltre che declino socioeconomico, secondo c’è pure il declino neurologico.

      • Claude Liszt on

        Mi accodo a Emmanuela e se cerchi una spiegazione per il cocomero/anguria, credo che fino agli Trenta/Quaranta il cocomero, assieme alle frattaglie, era una sorta di stereotipo razzista, nel senso che era un cibo indesiderato, che si dava per lo più agli animali (soprattutto maiali); erano avanzi, che si davano agli schiavi.
        Uno stereotipo ormai dimenticato dalla maggioranza degli Americani, a parte il capo della caserma dei vigili del fuoco di Detroit, a quanto pare.

  1. Come dicevo più su, secondo me parte del problema sono le scuole e le università.
    L’università del Texas sta cercando un professore di matematica, e come lo vuole? Vuole che sia totalmente impegnato nella “giustizia sociale” e nell'”educazione all’equità”.
    Cioè il requisito preferenziale che deve avere è il suo impegno verso il politicamente corretto. E stiamo parlando di un’università pubblica.

    https://pjmedia.com/trending/2017/10/11/texas-state-looking-hire-math-education-professors-committed-social-justice/?utm_source=PJMFacebook&utm_medium=post

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